Malcom Pagani, Undici n.2 27/10/2014, 27 ottobre 2014
IN COMMEDIA SENZA CRAVATTA
Le fughe con Giuliano Gemma a Cinecittà: «Lui distraeva l’autista e io mi infilavo nelle ceste della sartoria per vedere il cinema e il set con i miei occhi di bambino». Il Western metropolitano della Roma degli anni ’60: «La vita, nel quartiere Testaccio, non era uno scherzo. Ho fatto il macellaio, il fornaio, il segretario, l’aiuto segretario, l’organizzatore, il produttore esecutivo. Mi industriavo. L’ho sempre fatto lasciando ad altri salotti, amici importanti, padrini e padroni». I precetti di suo padre, autista dell’Atac: «Mi diceva che per essere rispettati non è necessario avere denaro, ma credibilità. I soldi valgono molto meno della parola data. Per mantenerla sono disposto a morire». Il signore che non teme l’iperbole si chiama Massimo Ferrero. Ha 63 anni, i capelli bianchi, lo sguardo sveglio, il volto tirato di chi non si ferma da mesi, le idee chiare: «Siamo al mondo per toccare, godere, vivere, respirare. Strillo soltanto quando ho ragione o voglio davvero bene a qualcuno. Sono nato povero e morirò ricco perché ho passione e la passione non si compra al mercato».
Da pochi mesi, dopo un decennio di reggenza garroniana, la Sampdoria ha un nuovo presidente. A Roma e in altre città italiane, dove Ferrero produce film e gestisce le più importanti sale cinematografiche della città, lo conoscono tutti. A Genova, superato lo sconcerto iniziale, hanno imparato a farlo e a convivere con l’anomalia dialettica di un signore che al profilo silente e discreto di Paolo Mantovani, preferisce la trovata, l’entusiasmo collettivo, il bagno di folla. Si sono fidati, abbonandosi in ventimila: «Forse perché sono simpatico». E adesso, sognano l’Europa: «Non temiamo nessuno. Ho un allenatore straordinario, una squadra formata da venticinque bravissimi ragazzi che mi amano e che adoro e decine di giovani che si stanno facendo le ossa in giro per l’Italia. Sinisa mi ha detto che ambisce a sostare stabilmente nella parte sinistra della classifica, io mi auguro si sbagli per difetto. La palla bisogna afferrarla e metterla dentro». La filosofia di Ferrero non si cura delle ironie né cerca rivincite da sventolare in faccia ai tanti che al principio della sua avventura opposero alla novità scherno e scetticismo: «Una risposta a questi signori? Ho altro da fare, devo pensare alla Sampdoria. Le chiacchiere le porta via il vento. Potrei replicare, arrabbiarmi, ribattere, ma sarebbe inutile, noioso o, peggio, banale. Così sollevo le spalle e siccome sono anche una persona educata non dico più una parolaccia, ma suggerisco di aspettare. Ci divertiremo». Ferrero sostiene che atterrare nel pianeta calcio non si sia rivelato differente dal trovarsi in un affresco dipinto da Kubrick. Procuratori, maneggioni, improbabili omologhi di ruolo, figurine circensi, falsi allarmi, simbolismi. Trattare calciatori e formare un gruppo che attende dal campo la conferma del suo valore, dice, non è stato facile: «Il mondo del calciomercato? Una stanza dell’Overlook Hotel, un frammento di Shining, un film dell’orrore». Tutto virtuale o quasi, dice: «Perché rispetto ad altre realtà – penso alla Liga, alla Premier League o alla Bundesliga – la serie A si risolve in una guerra tra poveri. Nessuno vuole pagare, chiedere giocatori in prestito è la norma e, nonostante la legge sugli stadi sia pronta da anni, ogni rivoluzione è tristemente ferma alle intenzioni». All’approssimazione italica, con il suo metodo. Ferrero vorrebbe dare una scossa: «Prima o poi occuperò il Comune di Genova perché pagare oltre un milione di euro all’anno per ritrovarsi in tribuna d’onore con i seggiolini arrugginiti è un non senso che grida vendetta». Ereditata la Sampdoria da un petroliere. Ferrero ha scoperto pozzi senza fondo. Atleti in sovrannumero, allenatori a libro paga, sanguinose voci di bilancio che confinano con il teatro di Ionesco: «La Sampdoria aveva un tecnico di nome Delio Rossi. Fece 9 punti in 11 partite e andò a piangere da Garrone spiegando al mio predecessore, un galantuomo, che non aveva più la squadra in mano. Invece di ricevere una stretta di mano e tanti auguri per il ritorno al paesello d’origine. Rossi venne licenziato. Non so quanto tempo sia trascorso da allora, ma so che continuo a pagare il signor Delio Rossi e tre persone del suo staff per stare comodamente a casa. Ho provato a incontrare l’allenatore per risolvere il contratto tra persone ragionevoli e cercare una transazione. “Non mi conviene” mi ha detto. Questo è il calcio italiano. Un luogo in cui gli affari saltano perché i diritti di veto, i sindacati e l’arbitrio del singolo sono più importanti dell’interesse generale. Così fino a quando qualche benemerito non avrà pietà di me e assumerà Rossi per farlo lavorare in un’altra realtà, le cose continueranno ad andare così. Spero che il tecnico sia in pace con la sua coscienza perché a incassare uno stipendio senza muovere un dito, io mi vergognerei. Mi tremerebbero le mani».
Ferrero aveva pensato di affidare a Rossi una delle formazioni giovanili della Samp, ma Renzo Ulivieri, presidente dell’associazione di categoria, ha preso carta e penna frenando l’idea sul nascere: «Ulivieri ha sbagliato mestiere e crede di essere Robin Hood. Mi ha scritto una letteraccia. Non gli ho risposto. Posso solo sperare in un domani diverso». Per adesso, tra una schermaglia cittadina e un’innocua provocazione: «Preziosi? Non lo conosco, sono nel calcio da poco, la gente “preziosa”‘ non fa parte del mio universo di riferimento». Ferrero naviga con il vento in poppa. «L’idea è quella di riportare le famiglie a godersi lo spettacolo e, per realizzare il progetto, bisogna stravolgere il sistema. Il calcio è un’azienda e va gestito con regole precise. Se cercate il mecenate che butti 30 milioni di euro l’anno nella spazzatura, rivolgetevi altrove. Non voglio guadagnare, ma riportare normalità in un microcosmo impazzito in cui violenti, provocatori e rompicoglioni hanno carta bianca per trasformare una festa in un percorso di guerra». Stop agli speciali permessi per i delinquenti travestiti da ultras: «Basta zone franche, insulti gratuiti alla Polizia senza conseguenze e guerriglie domenicali in balia dei teppisti» e via libera a un piano che recuperi «tutti quelli che hanno figli e per tranquillità, quando non addirittura per terrore, allo stadio non mettono piede da anni». Alle soluzioni estemporanee. Ferrero non crede: «Ci vuole una strategia. Una coesione di fondo. Un’unità di intenti. Altrimenti il rischio è di emulare il cinema italiano, un ambito in cui annualmente si grida alla rinascita solo perché un singolo Checco Zalone incassa 60 milioni di euro». Del battutista Ferrero – «ma io sono un dilettante, il battutista vero, uno dei migliori del pianeta è Claudio Lotito» – rimangono rade tracce: «Sono stanco dei soprannomi, di sentirmi chiamare Viperetta, del cabaret forzato che mi vorrebbe confinato sull’isola della guasconeria obbligata. Lavoro 20 ore al giorno, trascorro a Genova 5 giorni alla settimana e sono una persona seria». In Lega, nell’estate tumultuosa dell’avvento di Tavecchio, Ferrero si è seduto andando subito al punto: «Ho comprato una cravatta e mi sono presentato in Lega scavalcando la curiosità dei molti cronisti che, un po’ aggressivi, volevano sapere che impressione avesse l’allievo della nuova classe. Oltre il muro c’era una gran confusione. Un’aria di commedia. Sembrava di essere in una scena di Don Camillo e Peppone o, se preferisce, di Totò e Peppino. Si parlava e si straparlava di tutto tranne che delle questioni serie». Allora Ferrero, introdotto da Lotito a suo modo («Appena mi ha visto si è rivolto agli altri presidenti e ha fatto scivolare un “adesso sono cazzi vostri, voi siete abituati a prendere la vacca per le zinne e vi ritrovate l’unico che sappia veramente afferrare il toro per le palle”»), si è fatto sentire. «Ho minacciato di andar via immediatamente e poi ho fatto un elenco di ipotesi per migliorare la situazione generale. Mi hanno seguito e l’imitazione ha prodotto un effetto virtuoso. Chi suggeriva di portare 18 persone in panchina, chi di fare 4 cambi e non più 3, chi come Aurelio la creazione di un supercampionato». I presidenti hanno parlato e tracciato il solco. Se verrà un buon raccolto, come in Via col vento, lo dirà il tempo. Tra i suoi colleghi, Ferrero conosceva qualcuno: «Galliani, Lotito, De Laurentiis, Agnelli». Quando poi gli chiedi di stilare classifiche, il nuovo Ferrero si ricorda del vecchio. Ride. Scherza. Lavora di ironica sottrazione: «Il più capace di tutti? Non lo so, se non le dispiace prendo in prestito il titolo di un vecchio film. Il mio nome è nessuno». L’impressione è che con gli strumenti della modernità, il nuovo presidente della Sampdoria possa rinverdire la stirpe dei presidenti anni Settanta: «Non so, non ne sono sicuro. In assoluto il folklore non mi dispiace, ma devo divertirmi anche io. Non sono una macchietta e non sono qui per caso». Nel recinto del pallone, con velleità nascoste, avrebbe voluto giocare già da anni: «Mi chiamò il sindaco di Salerno, De Luca. Mi chiese di rilevare la Salernitana e la mia fidanzata, che a Salerno è nata, lo frenò. “La Salernitana ce l’ha già al suo fianco”». Ferrero ride ancora. Ripensa a quando incontrò Mihajlovic per la prima volta: «Andammo a vedere in un mio cinema una gara dei mondiali e poi a cena. Mi disse “Presidente, ci salviamo?”. Risposi che non mi bastava. Allora Sinisa tirò fuori la lista della spesa e cominciammo a ragionare sugli acquisti». Seduto accanto al braccio destro, l’avvocato romano Antonio Romei: «È il mio freno a mano, mi ha impedito di schiantarmi comprando decine di calciatori per il puro gusto di assecondare l’entusiasmo». Ferrero rivela che gli è stato offerto Ronaldinho, «ci chiamiamo Sampdoria, non siamo i Globetrotters», e persino Adriano, l’ex interista di cui rimangono solo le memorie: «Ma ho già il cinema e si chiama nello stesso modo». Ride ancora, si alza, respira. Alla parete c’è una foto. Lui e Ricky Tognazzi sul set del film Ultrà. «I tifosi ci bruciarono un campo, fu pericoloso, per sicurezza io giravo con il bastone dietro la schiena, magari un’altra volta le racconto il resto». E non si sa se sia davvero una promessa, una minaccia o solo un’occasione per ricordare da dove si viene e dove, soprattutto, si andrà.