Alessandro Piperno, Corriere della Sera - La Lettura 26/10/2014, 26 ottobre 2014
LO STILE IMPERFETTO
Cos’è lo stile? Per una volta la risposta più facile è anche la più precisa: è il modo peculiare con cui uno scrittore usa gli strumenti della sintassi, della morfologia, del lessico e della retorica. Il guaio è che, date le circostanze, la parola chiave è «peculiare»: le altre hanno poca importanza. Lo stile è un atto di distinzione. Ciò che rende particolari. Per assurdo si può dire che tutti abbiamo uno stile. Non è detto che sia interessante, anzi il più delle volte non lo è, eppure tutti ne siamo provvisti. Il difficile è riconoscerlo ed esibirlo nel modo più consapevole e spregiudicato. Vuoi avere stile? Non stravolgerti.
Non esiste il bello stile: esiste lo stile, che in quanto tale è personale. Per esempio, io non amo il modo eroico in cui Brian May dei Queen suona la chitarra: anzi, lo considero volgare e pretenzioso, ma non direi mai che non ha stile. Mentre potrei dirlo di chitarristi tecnicamente più dotati di lui, dal gusto sobrio e dal tatto delicato. Il vero nemico dello stile è l’eclettismo. Avere stile significa cercare di essere ciò che piace a te e non ciò che piace agli altri, a costo di non piacere a nessuno. Anche se di solito (come potrebbe spiegare il più sciagurato psicologo da rotocalco) più piaci a te stesso più aumentano le probabilità di piacere al prossimo.
Lo stile è questione di postura. È come quando Morgan dice: «L’importante non è l’intonazione ma il timbro». O per dirla con una trita metafora sportiva: non è importante dove indirizzi la palla, ma come la tocchi. Una demi-volée di McEnroe o un lancio di sinistro di Maradona, anche quando non ottengono il risultato sperato, sono gesti di stile, proprio perché inimitabili.
Per questo non esistono regole di stile. Chi sostiene che bisogna scrivere in modo semplice non è meno stupido di chi dice che bisogna scrivere in modo complesso. Chi dice che bisogna essere leggibili non è meno ottuso di chi dice che bisogna essere illeggibili. Chi dice «questo non si fa», «questo è sbagliato», «questo non va più», chi stila decaloghi sul buon gusto (abolire allitterazioni e cacofonie, dosare avverbi, aggettivi e gerundi, bandire espressioni come «a un tratto», «ciononostante», «chissà»), chi fa battaglie per abolire congiuntivo e punto e virgola, chi le fa per ripristinarli rinuncia per sempre alla possibilità di uno stile. Lo stile è carisma. E il carisma è sempre individuale. Non basta essere grassi come Churchill per vincere la guerra contro i nazisti, ma dubito che senza tutta quell’adipe Churchill avrebbe vinto la guerra. E allora dov’è la fregatura? Se per avere stile basta essere se stessi allora siamo tutti Shakespeare?
La fregatura è che non c’è niente di meno spontaneo della spontaneità letteraria. Anzi, la spontaneità è una conquista terribile. Proprio perché il cervello è un organo pigro e conformista, che adora le scorciatoie e ha un debole per i luoghi comuni. Per lui, di primo acchito, il cielo è sempre di «un azzurro intenso», la nebbia una «coltre», i capelli «d’oro», Il vento una «carezza»; per lui gli alberi sono «spogli», la luna «cala», il sole «sorge», le guance «avvampano»... Ecco cos’è lo stile: il tentativo di eludere i primi suggerimenti del cervello senza cedere all’imprecisione, alla bizzarria, al ridicolo.
Lo stilista di genio
«Si arriva allo stile unicamente con un travaglio atroce, con una ostinazione fanatica e devota» scrive Flaubert a Louise Colet. Stando a queste parole (ribadite fino alla nausea nell’epistolario), si potrebbe credere che Flaubert aderisse all’idea di stile che vi ho maldestramente espresso. Le cose non stanno così. Al netto del famigerato disincanto, del cinismo, del nichilismo, quando c’era di mezzo lo stile, Flaubert sapeva essere un romanticone. Pur diffidando dell’ispirazione, era convinto che per dire una certa cosa esistesse un solo modo. Era un fanatico dell’espressione giusta e insostituibile.
Non serve scomodare Valéry, Borges o Barthes per confutare questa bislacca idea di Flaubert. L’arte non contempla l’idea di perfezione. In linea teorica, persino L’infinito di Leopardi o La morte degli amanti di Baudelaire potrebbero essere scritti con maggior efficacia. Eppure bisogna ammettere che la tensione flaubertiana verso l’impeccabilità, il culto delle frasi cui consacrò una vita monotona e sedentaria, rendono il suo stile un prodigio senza precedenti. C’è chi lo accusa di preziosismo, di mancanza di spontaneità, c’è chi dice (forse a ragione) che talvolta l’ossessione per l’immagine gli faccia perdere di vista l’opera nella sua interezza, ma nessuno potrà negare che l’idea stessa di stile, a tutt’oggi riconosciuta sebbene non molto praticata, sia una sua invenzione. Lo stile concepito allo stesso tempo come griffe e come cilicio (Henry James diceva che Flaubert era a tutti gli effetti un anacoreta).
Del resto, non è vero che Flaubert fosse stitico, poco prolifico. Di fatto scrisse ininterrottamente per tutta la vita. È più esatto dire che trovò il coraggio di pubblicare una piccola parte dei suoi scritti: quattro romanzi (più uno postumo e incompiuto) e tre racconti. Di queste opere edite, solo tre esibiscono le stigmate del capolavoro immortale, le altre sono a dir poco controverse. E ciononostante Flaubert è lo scrittore più influente della narrativa moderna. In uno strano paradosso, con la sola eccezione della Bovary , le opere di Flaubert sono più amate dagli scrittori che dai lettori. Quasi ogni frase è un gioco di prestigio, e il bello è che il trucco non si vede.
Baudelaire, Maupassant, James, Cechov, Proust, Kafka, Joyce, Sartre, Borges, Nabokov, Salinger, Capote e, venendo ai giorni nostri, Vargas Llosa e Julian Barnes: la barca dei flaubertiani è in overbooking. Tutti, a vario titolo, per ragioni diverse, hanno scritto di Flaubert, tutti ne sono stati contagiati, illuminati, ossessionati. Che strano, in fondo il suo talento non ha la spigliata freschezza di Dickens, Hugo o Tolstoj. Il segreto è nell’incantesimo dello stile. Un incantesimo meditato fin quasi all’auto-mortificazione, ma frutto di alcune tecniche specifiche.
Discorso indiretto libero
Il primo colpo di genio, il più celebre. In senso stretto non fu Flaubert a inventarlo, ma nessuno lo utilizzò con altrettanta efficacia e consapevolezza. Vargas Llosa scrive: «Lo stile indiretto libero apre la strada verso l’interiorità del personaggio». Per capirsi, è quell’imbroglio con cui uno scrittore sposa il punto di vista del personaggio; gli entra nella testa senza denunciare l’intromissione attraverso virgolette o verbi dichiarativi: «disse», «affermò», «chiese», «annunciò», «dichiarò». Ma Flaubert non si limita a questo. Con audacia, e in barba a qualsiasi verosimiglianza, presta il suo fraseggio romantico ai personaggi. In tal modo ottiene un effetto paradossale e ironico: fatterelli meschini descritti con enfasi sublime. Questo ha creato due tipi di lettori di Madame Bovary: quelli che s’identificano in Emma, che la seguono in tutte le peripezie amorose, che palpitano per lei e con lei. E quelli che s’identificano in Flaubert, godendo nel vedere Emma presa per i fondelli. Non credo, come si dice, che Flaubert volesse compiacere soprattutto questi ultimi. Credo che abbia lavorato come uno schiavo per piacere a entrambi: il suo lettore ideale doveva essere un tipo abbastanza elastico da godere sia della commovente stupidità di Emma, sia della crudeltà satirica del suo creatore. Quale scrittore non è alla ricerca di un lettore che gli somigli?
Immagini e metafore
La spericolatezza con cui Flaubert usa lo stile indiretto libero ha generato non pochi equivoci tra gli esegeti. Proust arriva a dire che Flaubert non sa creare metafore, ma solo similitudini. Thibaudet ci va giù ancora più duro: le similitudini di Flaubert sono macchinose, pedestri e poco evocative. Ciò che entrambi fingono di ignorare è che le figure retoriche sono al servizio del discorso indiretto libero. Se fossero meno corrive sarebbero inappropriate ai personaggi, che di solito, almeno nel caso di Flaubert, sono molto stupidi. A tal proposito Nabokov cita il passo in cui Flaubert descrive i patimenti di Emma dopo la partenza di Léon — «il dolore scava profondamente nella sua anima, con dolci urli, come fa il vento invernale nei castelli abbandonati» — commentando: «In questi termini Emma avrebbe descritto il proprio dolore, se avesse avuto genio artistico».
Feticismo
Il ridicolo cappello con cui Charles Bovary si presenta ai suoi compagni di classe e ai lettori; il portasigari foderato di seta verde profumato di tabacco e verbena nascosto tra la biancheria; la mappa di Parigi su cui Emma fantastica, immaginando un viaggio che non compirà mai; il piatto sporco che raccoglie tutta la sua amarezza di moglie infelice; per non dire di corpetti, stivali, ombrellini, frustini, mosche annegate nel sidro, ciocche di capelli tagliati e molto altro materiale fetish ... Per molti il realismo di Flaubert sta nello sguardo partecipe, tanto poetico quanto preciso, sugli oggetti. In un certo senso, si potrebbe dire il contrario. La religione degli oggetti è più affine alla retorica decadente che al realismo pedestre di molti suoi contemporanei. Flaubert è più vicino a Baudelaire e ai suoi epigoni che a Courbet e ai suoi seguaci.
Musica
Sebbene metta in scena una storia di grettezza imbarazzante, Madame Bovary è uno dei tentativi più riusciti, nella storia del romanzo borghese, di trasformare la prosa in poesia. Sempre Nabokov lo definiva un vero e proprio «poema in prosa». Del resto, Flaubert era il primo a riconoscere che «una bella frase di prosa deve essere come un bel verso: insostituibile, altrettanto ritmata, altrettanto sonora». C’è chi dice che la fatica di scrivere di Flaubert derivasse da una non particolare attitudine alla musica. Per intendersi, il povero Gustave non aveva la facilità di Verlaine nell’assemblare parole melodiose ed evocative. Diceva Sartre che per Flaubert persino l’uso dell’alfabeto era stato una conquista, figurarsi la musica. Per ottenere quell’effetto, Flaubert elabora una strategia complicata, a cominciare dal ritmo e dalla melodia delle frasi che, come sottolinea Thibaudet, spesso presentano un movimento tripartito. Flaubert scrive una frase; poi la chiarisce con un’altra ancora più specifica, che a sua volta viene arricchita da una terza capace di spiegare sia la prima che la seconda. Nabokov parla di «procedimento a strati». Comunque lo si chiami, somiglia molto alla costruzione di certe sinfonie romantiche e rende la prosa melodiosa fin quasi allo sfinimento.
Ma per garantirsi la musica Flaubert usa altri accorgimenti non meno ingegnosi. A cominciare dalla guerra dichiarata ai pronomi relativi. Flaubert considera il «che» (in francese qui e que ) il vero nemico della prosa elegante. Lo odia a tal punto che in caso di necessità preferisce utilizzare «il quale» e «la quale» ( lequel , laquelle ), pronomi assai più ridondanti, ma meno duri. Per lo stesso motivo sceglie a volte avverbi inutili — «allegramente», «splendidamente», «sontuosamente» —, anch’essi al servizio della musica, veri e propri contrappunti. In un racconto scrive, a un certo punto, « il marchait continuellement ». Ovvero, «camminava continuamente», laddove il verbo stesso implica un’idea di continuità. Un tipico caso in cui sacrifica la correttezza dell’espressione alla musica della frase.
Ma il tocco di classe, ciò che conferisce alla prosa di Flaubert un tono wagneriano, è l’uso del plurale. Come nel famoso attacco del penultimo capitolo de L’educazione sentimentale : «Viaggiò. Conobbe la malinconia delle navi, i freddi risvegli sotto la tenda, lo stordimento dei paesaggi e delle rovine, l’amarezza delle amicizie interrotte». È evidente che l’abuso di quei sostantivi coniugati al plurale — «navi», «freddi risvegli», «paesaggi», «rovine», «amicizie interrotte» — serve a conferire solennità alla scena, a rendere universale l’esperienza dell’eroe, e a cristallizzarla nel tempo.
Il Tempo
Ed eccoci al punto. Più invecchio più mi accorgo che quasi sempre il protagonista occulto dei romanzi che amo è il tempo. Flaubert scandiva i repentini cambi di stagione attraverso frasi brevi e implacabili. «Tornò la primavera». «L’inverno fu freddo». «Scendeva la brina». «Era l’inizio di aprile, quando le primule sono in fiore». Non sorprende che sia stato Proust (che di Tempo se ne intendeva) a notare e definire il peculiare uso dell’«l’eterno imperfetto», la tecnica con cui Flaubert sospende l’azione e rende, per così dire, icastici i quadri che dipinge. «Arrivava gente trafelata, barili, cime, cesti di biancheria intralciavano il passaggio; i marinai non davano retta a nessuno; tutti si spingevano; i bagagli venivano issati tra le due ruote e il baccano si stemperava nel fruscio del vapore che, fuoriuscendo dalle lamiere, avvolgeva ogni cosa in una nube biancastra, mentre a prua la campana rintoccava senza interruzione». Qualsiasi altro scrittore (di allora come di oggi) avrebbe interrotto questa sequenza di imperfetti almeno con un passato remoto, se non altro per dare il senso di un’azione compiuta. Non Flaubert. È grazie all’uso sistematico e ossessivo dell’imperfetto che i colori dei suoi quadri non smetteranno mai di scintillare.