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 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

1ª STELLA A SINISTRA


Come Godot, anche la società di calcio più antica d’Italia, il Genoa, aspetta. E come Godot è in attesa di qualcosa che non arriverà mai, o che, comunque, è ben al di là anche solo dall’intravedersi all’orizzonte: la stella, quella da cucire sulle magliette come gli squadroni di Milano e Torino, quella del decimo scudetto, quella che incombe da 90 anni senza arrivare mai. L’ultimo vinto, di scudetto, il nono, risale al 7 settembre 1924.
Intanto la prima notizia per chi non lo sapesse, cioè i più: sì, il Genoa, quella squadra nobile, che sta sempre nella colonna destra della classifica, ha nove scudetti. Non uno, non tre o quattro, non un numero per cui la conquista della stellina dorata sarebbe solo una chimera, una pazzia, un sogno. No: nove, numero infame, a un passo dalla vetta, a un passo dalla gloria imperitura che consentirebbe l’accesso all’olimpo di cui, solo in virtù del blasone storico ormai, i genoani si sentono comunque membri di diritto. Nove scudetti stampati sulle bandiere e ricordati ovunque e sempre, ma comunque nove. Tradotto: la stella meno uno. Praticamente un’ossessione collettiva, che il tempo e le sorti sventurate del “vecchio balordo” (come lo chiamava Gianni Brera, tifoso doc rossoblù) non hanno mai affievolito.
«È la stella che vogliamo/ perché noi non ci arrendiamo»: basta andare – anche adesso, anche 90 anni dopo – a una qualsiasi partita del Grifone, ufficiale o amichevole, per sentirla cantare a squarciagola da uno stadio gremito da oltre 35mila persone, nessuna delle quali, però, degli altri nove ne ha mai visto vincere uno sul campo.
Eccolo il destino tragico, ecco l’epopea perdente: un capitale non guadagnato, un tesoro merito di altri, cui mancherebbe davvero poco per trasformarsi in leggenda: uno scudetto, uno solo, però stregato, impossibile. A dire il vero, come ogni maledizione che si rispetti (altro che quella di Guttmann per il Benfica, «senza di me non vincerete più coppe per un secolo», cioè cento anni, e ci siamo quasi), c’è ovviamente il fattaccio che la rende ancora più tragica. Perché in effetti la stella ci sarebbe, o ci dovrebbe essere, ma gli almanacchi del calcio sono freddi e feroci, e soprattutto parlano chiaro (nonostante la società a un certo punto avesse davvero provato a farsela assegnare d’ufficio con ricorsi e contro ricorsi, che immalinconirono ancora di più i tifosi e che, ovviamente, non portarono a nulla). L’anno dopo la conquista del nono (cucito allora per la prima volte sulle magliette come adesso, idea che si attribuisce addirittura a Gabriele d’Annunzio), il ciclo rossoblù infatti era ben lontano dal tramonto e anche nel 1925 il Genoa arrivò in finale di Lega Nord (inutile annoiare dettagliando, ma all’epoca i campionati erano diversi da come li conosciamo adesso). Sfida con il Bologna. E proprio durante lo spareggio, con i genovesi in vantaggio per due a zero, accadde l’imponderabile: tiro di Muzzioli, deviazione del portierone genoano Giovanni De Prà, sospiro di sollievo dei tifosi, e arbitro che indica il calcio d’angolo. Fu in quel momento che in campo entrarono i dirigenti del Bologna in camicia nera, capeggiati da Leandro Arpinati, sottosegretario agli Interni e poi anche presidente della Figc (carica per cui evidentemente c’è sempre voluto un certo stomaco, ecco): «Signor arbitro, non è corner, è gol, l’hanno visto tutti: la palla è entrata e uscita». «Ma no, guardi, veramente...», solo che i manganelli già roteavano per aria e allora: «Sì, sì, certo, è gol, l’hanno visto tutti…». Eccolo il ratto della stella, ecco il furto che se vai ancora oggi in Gradinata Nord chiunque è in grado di citare: la “gioia rubata dalla violenza fascista”, il “democratico trionfo infranto contro le decisioni di regime” (la partita fu rimandata e giocata cinque volte sino a quando vinse il Bologna, con appendice western quando i tifosi emiliani esplosero persino delle revolverate contro un treno carico di genoani alla stazione di Porta Nuova a Torino).
Le teche Rai conservano documentari degli anni Cinquanta dove i protagonisti, ormai attempati, si accalorano e si indignano: «Era nostro!», dicono i poverini, ma lo dicono al vento, perché la stella mai più arrivò. Il resto della storia è facilmente immaginabile: retrocessioni, sprofondi in Serie C, eroiche risalite, galleggiamenti, ma nulla più (1993: il presidente di allora. Aldo Spinelli: «Una stella sui 100 anni del Genoa». 2003: l’attuale presidente Enrico Preziosi, quando acquistò la società: «Al Genoa regalerò la stella». Sì, come no). Con un’unica – anche qui: tragica – eccezione: quella dei primi anni ‘90 (numero che ritorna...), con il Genoa più forte del dopoguerra, quello di Thomas Skuhravy, di Capitan Signorini e Pato Aguilera, prima squadra italiana della storia a vincere all’Anfield Road, che nel 1991 ottenne il piazzamento più alto mai raggiunto dai tempi eroici: quarto in classifica. Con un dettaglio, però, che definire beffardo sarebbe poco: in vetta alla Serie A quell’anno arrivò la Sampdoria di Boskov, Vialli e Mancini. Cioè: l’anno della potenziale gioia, del piazzamento in Coppa Uefa, della speranza per un possibile riavvicinamento in un futuro prossimo alla stella dei sogni, a vincere erano gli odiati blucerchiati, considerati sempre cugini mal sopportati, dalle troppo poche sofferenze, dalla mancanza di pathos, dalla storia troppo recente. E così da gioia divenne gioia a metà, con la città deturpata da centinaia di scritte, tutte uguali, ma tutte devastanti per i tifosi rossoblù, e devastanti perché insindacabili e vere: «Meglio uno vissuto che nove raccontati».
Ecco, la dimensione del racconto in effetti è fondamentale in una comunità che non ha visto niente, che ha ricevuto – neanche dai padri, ma dai nonni – un’eredità dorata ma pesantissima, e sempre al di là del vetro, irraggiungibile: ne abbiamo vinti nove, ne manca solo uno, tocca a voi. Un’eredità ossessionante, ma va detto anche mai riposta nel cassetto, sino alla tenerezza, sino al donchisciottismo: «È la stella che vogliamo/ perché noi non ci arrendiamo», o anche, come recita l’inno ufficiale della società: «Oh donna prepara/ per la mia bandiera/ il nuovo scudetto/ che il Genoa vincere dovrà».
Già, ma dovrà quando? “Presto” risponderebbe chiunque interpellato, dal centro storico a Oregina, da Nervi sino in Valbisagno. Intanto, però, si continua a vivere all’ombra del mito: il portiere (genovese oltre che genoano) De Prà, l’eroe dal ciuffo ribelle imbattuto per 33 partite, che una volta continuò a parare anche con un braccio rotto. Ottavio Barbieri, il difensore (genovese pure lui) cui è intitolato uno dei club storici della Gradinata Nord. E soprattutto William Garbutt, di cui basta dire che se gli allenatori di calcio vengono ancora chiamati oggi “mister” (a torto, in alcuni casi) è grazie a lui, al primo allenatore moderno che ci fu in Italia, mister Garbutt, appunto, che nell’immaginario rossoblù compete solo con il mai dimenticato professor Franco Scoglio («Quando parlo voglio essere ascoltato con attenzione, perché ormai c’è l’abitudine di fare troppi discorsi ad minchiam», e vabbè).
Ed è un mito così vivo che non è strano imbattersi su Facebook o Twitter in qualche adolescente che scrive a Mattia Perin, attuale portiere del Grifone: «Sei tu l’erede di De Prà», come se fosse una cosa di ieri, un paragone normale, e non si trattasse invece di un signore morto ben prima che nascesse il Mattia nazionale. Ma il mito, sino a quando non viene infranto, non si tocca, e tale rimane: «È la stella che vogliamo, perché noi non ci arrendiamo».
Qualche tempo fa circolava sul web (anche sui profili ufficiali della Serie A Tim) la foto di un simpatico nonnetto che spegneva una torta con una candelina e il numero 102 piantato su di una bandiera di glassa rossoblù con il grifone. “Che tenerezza” avranno pensato tutti i tifosi d’Italia. Ma non i genoani. Che – matematico – avranno sospirato: «Lui almeno c’era».