Raffella De Santis, la Repubblica 28/10/2014, 28 ottobre 2014
ALESSANDRO BARICCO CONTINUA A SCRIVERE PERCHÉ SA CHE LE BELLE STORIE RESISTONO A OGNI CRISI. NON HA PAURA DI AMAZON NÉ DELLA RIVOLUZIONE DIGITALE: «IL LIBRO CARTACEO È UN OGGETTO GENIALE, IMPLICA UNA BELLEZZA, UNA FISICITÀ, DIFFICILE DA CANCELLARE». LA LETTERATURA RESISTERÀ AI CAMBIAMENTI, PER QUANTO BARBARI POSSANO ESSERE
[Intervista] –
Non lo impaurisce Amazon. Non lo impaurisce la rivoluzione digitale dei nostri giorni. Non crede che la letteratura sarà cancellata dai mutamenti in atto, per quanto barbari possano essere. Alessandro Baricco continua a raccontare storie, perché sa che le belle storie resistono a ogni crisi. Vent’anni fa veniva pubblicato il monologo teatrale Novecento, portato sul grande schermo da Giuseppe Tornatore e che oggi Feltrinelli festeggia con una nuova ristampa (dopo 1 milione e 200 mila copie vendute dal 1994 e pubblicazioni in 32 paesi).
L’ultimo suo libro, Smith & Wesson (Feltrinelli), è di nuovo un testo scritto per il teatro ambientato nel 1902 sullo sfondo delle cascate del Niagara. Uno scenario che ha alimentato fantasie di scrittori e avventurieri, prima di diventare battuto dal turismo di massa. Due atti, poco più di cento pagine, tre personaggi che tentano di dare una svolta alla loro vita. Smith, inventore e meteorologo, arrivato lì per stilare tabelle climatiche. Un pescatore, Wesson, che raccoglie i corpi dei suicidi nel fiume. In due fanno il nome di una pistola. Poi c’è Rachel, una giovane giornalista in cerca dello scoop: gettarsi nelle cascate e uscirne viva. Tre squattrinati che credono di poter regalare al mondo una storia memorabile, la prodezza che li trasformi in eroi.
Le cascate del Niagara sono una scenografia suggestiva ma perché fuggire tanto lontano per ambientare una storia?
«Perché sono un luogo leggendario, mitico. In passato erano uno spazio intatto di natura spettacolare, un paradiso terrestre. C’è stata un’epoca in cui per molti erano la prova dell’esistenza di Dio. Per altri rappresentavano lo spettacolo romantico della natura, del sublime. Dickens vi si era recato quando erano ancora meta di un turismo d’élite, di un impervio e mistico pellegrinaggio. Ho accumulato materiale sulle cascate per anni prima di scriverne».
È così che scrive i suoi libri, collezionando appunti nel tempo per poi svilupparli?
«Ho fatto la stessa cosa con i transatlantici di Novecento. Mi porto dietro pezzetti di storie, accumulo letture, ritagli, libri. Ci sono scenari narrativamente forti che covo per anni. Molte delle cose che racconto in Smith & Wesson sono vere. Il momento in cui le cascate in un inverno freddissimo della seconda metà dell’800 sono sparite, ad esempio. Nessuno sapeva perché. Alcuni si sono chiusi in chiesa a pregare, altri si sono messi a ballare. Altri ancora sono andati a far brillare con la dinamite gli spunzoni che gli davano fastidio quando navigavano».
In fondo sia Novecento che Smith & Wesson sembrano libri sull’importanza di narrare.
«In Novecento la voce narrante a un certo punto dice: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Per me anche il teatro è una forma di narrazione. Ci arrivo da fuori, con l’istinto del narratore».
Ma nell’era digitale questo istinto non rischia di apparire anacronistico?
«L’istinto di narrare è più forte oggi che qualche tempo fa. È vero però che il libro ha perso centralità. Noi scrittori continuiamo a scrivere, ma contiamo sempre meno. Comunque sono d’accordo con quanto sostiene Andrew Wylie: la narrativa di una certa qualità sarà ancora legata al libro di carta. Il libro cartaceo è un oggetto geniale, implica una bellezza, una fisicità, difficile da cancellare».
Dunque non dobbiamo allarmarci… «Cambia solamente il modo di raccontare. Il cinema e il giornalismo in passato hanno condizionato la scrittura di Hemingway, Fitzgerald o Steinbeck. In genere i meticciati danno vitalità. Se interpretati da grandi talenti portano a un progresso».
Che cosa pensa di Amazon? Firmerebbe la lettera degli scrittori americani contro il gigante del commercio online?
«Amazon fa parte della mutazione collettiva che descrivevo ne I barbari. Non ho ancora firmato, non so se firmerò. Sono in attesa di capire meglio. Lo scenario è nuovo. Forse potrebbe essere utile un intervento pubblico per correggere le regole del mercato, ma bisogna sempre stare attenti alla prima reazione automatica. Ogni anno alla Scuola Holden scegliamo una domanda chiave su cui riflettere. Quest’anno è: “Amazon in questa storia è Babbo Natale o lupo mannaro?”».
Non c’è il rischio che le case editrici facciano la fine delle case discografiche?
«Sono stato ospite della Buchmesse di Francoforte. Lì vedi schierata una potenza intellettuale ed economica planetaria: il mondo delle case editrici. Non sono gli ultimi arrivati. Pensare che possano essere spazzati via da un uomo solo mi pare strano. Le case discografiche erano ferme a un modello vecchio. Sono state rimpiazzate da qualcuno che aveva idee più smart e attuali».
Come giudica la letteratura italiana dei nostri giorni?
«È un po’ impazzita, con molti talenti e poca capacità di osare. Molti scrittori oggi prediligono l’autofiction, mettendo in gioco se stessi. A me sembra un po’ un rinvio, un rimanere sul posto. Il viaggio dentro la scrittura e i propri fantasmi è lungo e pretende pazienza. Si è persa l’ambizione, il coraggio nell’attendere i risultati ».
In un recente articolo su Repubblica , Bruno Arpaia ha denunciato la scomparsa dello scrittore medio, che riesce a vivere del suo lavoro. È la fine di un mestiere?
«Negli anni Novanta era più semplice vivere di sola scrittura. Giravano molti soldi, era l’epoca d’oro dell’editoria. Ora si soffre di più, ma l’industria culturale offre diverse opportunità. Tranne Antonio Moresco non conosco nessuno che faccia lo scrittore puro. Ho sempre fatto più cose, non solo per motivi economici. Non sarei riuscito a fare un mestiere solo in tutta la vita. Sarei diventato matto».
Cos’è per lei la creatività?
«È una metamorfosi. Tutto ciò che fa ripartire il gioco a tutti i livelli. È una bella parola: vuol dire continuare a partecipare alla creazione».
Di noi italiani si dice che siamo creativi. È solo uno stereotipo o davvero abbiamo una carta in più per superare la crisi?
«Siamo veloci, avanti nella lettura dei tempi, abbiamo una grande elasticità mentale. Però ci manca la compattezza, la forma: facciamo volare aquiloni e poi ci scappano».
Raffella De Santis, la Repubblica 28/10/2014