Sergio Luzzatto, Domenicale – Il Sole 24 Ore 26/10/2014, 26 ottobre 2014
COGNOMIFICIO ITALIA
Il 24 settembre scorso, la Camera dei Deputati ha approvato un testo di legge che potrà cambiare la storia dei cognomi degli italiani. E che modificando la disciplina dei cognomi – intervenendo quindi, per così dire, sulle nostre carte d’identità – è destinato a modificare, in prospettiva, la nostra stessa identità. La legge fa cadere l’obbligo consuetudinario di attribuire a ogni nuovo nato il cognome del padre. Secondo la scelta dei genitori, al figlio potrà essere dato il cognome del padre, il cognome della madre o il cognome di entrambi. Se il testo verrà approvato anche dal Senato della Repubblica, con la fine dell’attribuzione automatica del cognome paterno si esaurirà in Italia (per dirla con una sentenza pronunciata nel 2006 dalla Corte costituzionale) il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» e di «una tramontata potestà maritale».
Giunge a proposito, quindi, il volume che Roberto Bizzocchi ha dedicato a I cognomi degli italiani. Non l’ennesimo repertorio etimologico-linguistico sull’origine dei Rossi o dei Bianchi, dei Messina o dei Parodi, ma un libro che si addentra nel l’ipertrofica giungla dei cognomi italiani (oltre 300.000) meno per soddisfare curiosità che per ragionare – recita il sottotitolo – di Una storia lunga 1000 anni. Storia iniziata dopo l’anno Mille, quando al nome unico con cui si era stati soliti designare un individuo nell’Alto Medioevo prese ad aggiungersi un secondo nome: cioè qualcosa come un cognome. Fosse quest’ultimo un patronimico o matronimico (Di Pietro, De Maria, eccetera), o derivasse da un toponimo (Lombardi, Calabrese) o da un mestiere (Barberis, Fabbri), o fosse calcato su un soprannome (Basso, Sordi).
A spiegare l’«alluvione di nomi» – come Bizzocchi la definisce – che investì la Penisola tra l’anno Mille e il Duecento valgono fenomeni storici quali l’addensarsi dei contadini nei borghi o nelle città, e la conseguente moltiplicazione delle attività artigianali. Il complicarsi del tessuto sociale rese via via più utile una designazione degli individui che li sottraesse al caos delle omonimie o alla nebbia dell’indistinzione. Cominciarono per prime, naturalmente, le famiglie di maggiore prestigio, che attraverso la stabilizzazione di un cognome tenevano a sottolineare la forza del casato. Seguirono a ruota i Comuni o le Signorie, che sempre più avevano bisogno di identità precise per riscuotere tasse, reclutare soldati, punire banditi.
Ma non si trattava unicamente di famiglie nobiliari e di pubbliche amministrazioni. Ovunque vi fosse qualcosa da trasmettere agli eredi, anche il più modesto dei beni o dei diritti, là c’era spinta verso un processo di "cognomizzazione" della società italiana. Il quale processo, tuttavia, si scontrò lungamente – per secoli e secoli – con il fatto che la maggior parte degli italiani erano analfabeti, e che parlavano dialetto; mentre i cognomi dovevano passare, per stabilizzarsi, attraverso il suggello burocratico di documenti scritti, e scritti in latino. Da qui confusioni, lentezze, equivoci a non finire. E una «lunga durata» nel primato dei prenomi sui cognomi che trova riflessi evidenti nella storia della letteratura tardomedievale come nella storia dell’arte rinascimentale.
Niente più che patronimici, ad esempio, quelli delle nostre «tre corone»: Dante figlio di un Alighiero di Bellincione di Alighiero, Francesco figlio di un messer Petracco, Giovanni figlio di un Boccaccio da Certaldo. E soltanto prenomi quelli di un Masaccio o di un Donatello. Ancora nel Cinquecento, perfino l’artista considerato un po’ da tutti come il massimo dell’epoca – Michelangelo – aveva un cognome ballerino. Sì, era Michelangelo Buonarroti. Ma era anche Michelangelo Simoni. Il suo bisnonno, uomo d’affari morto a Firenze nel 1405, si chiamava infatti Buonarrota di Simone, e da lui si erano formati due cognomi di famiglia. Quanto a un tale contadino che si chiamava Morone di Biagio e viveva nel paesello di Montecarlo (tra Lucca e Pistoia) verso la metà del Trecento, è stato calcolato che abbia dato luogo, entro la fine del XVI secolo, a qualcosa come sei cognomi: Moroni, Baldacci, Paroli, Lorenzini, Volpini, Tognetti!
A partire dal 1563, le misure adottate dalla Chiesa nel concilio di Trento incisero significativamente sul processo storico di fissazione dei cognomi. Imponendo alle parrocchie dell’Italia intera l’obbligo – più o meno assolto dai curati – di redigere libri di battesimo e libri di matrimonio, le gerarchie ecclesiastiche spinsero padri e madri, padrini e madrine, compari e comari a registrare nero su bianco, con i loro nomi, i loro cognomi. Non per questo, tuttavia, il cognome divenne il fulcro del l’identificazione onomastica degli italiani. L’identità sociale di un uomo o di una donna (la sua appartenenza a un gruppo, la sua provenienza da un luogo, la sua reputazione entro un ambiente) continuò a pesare almeno quanto la sua identità individuale.
Un esempio? Gli imputati processati dall’Inquisizione di Napoli tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento. Per una maggioranza di loro, i registri del tribunale ecclesiastico riportano nome e cognome. Ma per un’ampia minoranza, si contentano di designazioni assai poco burocratiche: «Albenzia ai Quartieri spagnoli», «Angela napoletana a Torre del Greco», «Antonio sbirro del capitano Palombara», «Benedetto caporale della Gabella della Farina», «Pasquale tessitore a S. Matteo dei Cocchieri», «Andrea siciliano», «Zeza calabrese», «Donato delle parti di Salerno», «Camillo detto il santo», «Francesca mammana», «Giulia faccia cotta»... Ancora in pieno Seicento, i cognomi erano lungi dall’averla vinta.
Una riprova viene da quell’altro grande prodotto della Controriforma cattolica che fu l’Indice dei libri proibiti. Nel l’edizione del 1664 come già nelle edizioni cinquecentesche, invano si cercherebbe certi vituperati corruttori della morale cristiana – come l’autore del Principe, o l’autore della Storia d’Italia – alla lettera M di Machiavelli o alla lettera G di Guicciardini. Per trovarli bisogna guardare, in un indice tutto organizzato per prenomi, alla N di «Niccolaus» e alla F di «Franciscus». Occorre attendere la metà del XVIII secolo, l’edizione dell’Index pubblicata nel 1758, per trovare alla G «Guicciardini Francesco» e alla M «Machiavellus Nicolaus».
Convertendosi ai cognomi, il censore ecclesiastico si uniformava a un’evoluzione dei costumi ormai propria anche dei laici. Anzi, fu precisamente nell’età della ragione illuministica (e delle riforme illuministiche) che l’opportunità amministrativa e notarile di designare un individuo con nome e cognome assunse la forma di un imperativo politico e sociale. Nel 1767 e nel 1784, censendo le rispettive popolazioni, i funzionari asburgici della Toscana e della Lombardia distribuirono moduli prestampati che riservavano al cognome un’apposita casella. Qualche decennio ancora, e nel 1813 i funzionari napoleonici intimeranno agli abitanti del regno d’Italia «i quali non hanno un cognome, o sia un nome di famiglia» di prenderne uno entro tre mesi, e «di farne la dichiarazione avanti l’Ufficiale dello stato civile del Comune in cui sono domiciliati».
Ottocento anni dopo l’anno Mille, essere un italiano senza cognome non rappresenta più soltanto un problema, configura un reato: «I contravventori subiranno una multa di cento lire e un cognome imposto dal Podestà o Sindaco». Secondo la libertà dei moderni, l’imperscrittibile diritto all’identità personale corrisponde anche a un inderogabile dovere.
Sergio Luzzatto, Domenicale – Il Sole 24 Ore 26/10/2014