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 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

QUEL CONFLITTO DI INTERESSI TRA STATO E CONFINDUSTRIA

All’inizio degli anni ’90 nel gruppo Iri le imprese in utile si contavano sulle dita di una mano. Il resto, centinaia di altre, erano in perdita e il governo contribuiva sistematicamente a ripianare. L’Italia faceva parte dell’Occidente ma non era compiutamente un’economia di mercato. E oggi? Le 4300 imprese partecipate almeno al 50% dal settore pubblico, e con più di 100 addetti, conservano un ruolo di primo piano nell’economia: secondo l’Istat è loro il 27% degli investimenti totali delle imprese, il 25% dei margini lordi, il 22% del valore aggiunto, il 21% dei salari. Senza contare le altre seimila imprese a partecipazione statale che non entrano in questo conteggio. In Italia il settore pubblico e quindi la politica continuano a fare pienamente concorrenza al settore privato, avendo però dalla loro le capacità dei bilanci dei Comuni, delle Regioni e dello Stato centrale. Gareggiano sapendo che l’arbitro è dalla loro parte e sapendo che possono usare il denaro del contribuente, in caso di sconfitta. Se qualcuno dovrebbe sentirsi insoddisfatto da questo stato di cose, è chi può contare solo sulle proprie forze: i piccoli, medi e grandi imprenditori e l’associazione che li rappresenta, Confindustria. È dunque sorprendente che Confindustria non stia afferrando la bandiera della riduzione della pletora di società partecipate dagli enti pubblici. L’associazione degli imprenditori chiede sì al governo di andare avanti con la spending review, ma sulla chiusura, aggregazione o privatizzazione di imprese pubbliche cronicamente in perdita appare timida. Forse dipende dal fatto che Confindustria stessa non rappresenta solo imprese private, poiché gruppi controllati dal governo come Poste, Ferrovie dello Stato, Eni o Enel sono componenti (e contribuenti) importanti dell’associazione. Forse, più nello specifico, dipende invece dal fatto che - sembra - queste grandi aziende controllate dal governo hanno ricevuto il suggerimento dall’azionista di ridurre di metà le proprie quote da versare in Confindustria. Ciò renderebbe l’associazione più vulnerabile finanziariamente e dunque più debole nei confronti loro e del governo. Confindustria paga così la sua condizione di club in chiaroscuro, composto di imprese pubbliche e private. Questa però non spiega tutta la sua esitazione nel chiedere lo sfoltimento delle municipalizzate. Dopotutto questo governo sembrerebbe più determinato di quello precedente nell’andare avanti su questa strada. Resta dunque il sospetto che in realtà Confindustria e la miriade di imprese che essa esprime siano ferme su questo fronte semplicemente per mancanza di idee. Troppe imprese private vivono di commesse di fornitura dalle imprese pubbliche e del rapporto con la politica che ciò implica. In un sistema cambiato, molti privati non saprebbero come orientarsi o farsi valere sui propri meriti. Se Confidustria è in crisi di idee e proposte su come rendere l’Italia più competitiva, forse è perché riflette (anche) la parte meno audace della propria base.
Federico Fubini, Affari&Finanza – la Repubblica 27/10/2014