Roberto Romagnoli, Il Messaggero 27/10/2014, 27 ottobre 2014
L’ADDIO DI MUJICA: AL SEGGIO E POI A SEMINARE LE ZUCCHE
E’ sceso nel quartiere periferico di Motevideo “Rincon del Cerro”, dove abita, dal suo Maggiolone color carta da zucchero, ha invitato la gente a votare con «allegria e serenità», poi ha detto che nel pomeriggio, se avesse avuto tempo, si sarebbe dedicato a «piantare zucche» «perché domani non ho tempo». Così, José “Pepe” Mujica, il più informale capo di stato del mondo, si è presentato ieri mattina al seggio per votare per il suo successore. Che nelle intenzioni del “suo” Frente Amplio, dovrebbe essere l’ex presidente Tabaré Vazquez. Ma dopo una campagna elettorale condotta per mesi con la certezza di una vittoria facile, Vazquez si sente ora insidiato dal conservatore Pou Lacalle (figlio dell’ex presidente Alberto) del Partito nazionale. Secondo i sondaggi tra i due c’è un distacco di circa 10 punti percentuali ma la sfida al ballottaggio, dove ci sarà da raccogliere il circa 15% del terzo candidato alla presidenza, Pedro Bordaberry (anche lui figlio di un ex presidente) del Partito colorado (centro-destra) potrebbe riservare sorprese.
Ma è sull’uscita di scena di Mujica che si è concentrata l’attenzione di queste elezioni. Personaggio-simbolo molto più all’estero che in patria, l’ex alto dirigente dei Tupamaros, il movimento guerrigliero che negli anni Sessanta tentò di imporre il socialismo in Uruguay attraverso la via armata, ha vissuto il suo mandato presidenziale all’insegna della sobrietà, dell’umiltà e dell’austerità. Un uomo qualsiasi nel vero senso della parola. Niente cravatta, né abiti scuri, niente scorta, a parte la sua fedelissima cagnolina zoppa, né conto in banca. La sua casa di campagna, con l’orto e circondata dai fiori che lui stesso coltiva, non l’ha mai lasciata. Del suo stipendio presidenziale, circa 10mila dollari, tratteneva per sé il minimo indispensabile: 800 dollari. Tutto il resto lo versava a un’istituzione impegnata nello sviluppo delle aeree rurali più povere. «Questi soldi, anche se sono pochi, mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno» amava ripetere. In un’intervista alla Bbc dichiarò: «Mi chiamano il presidente più povero, ma io non mi sento povero. I poveri sono coloro che lavorano solo per cercare di mantenere uno stile di vita costoso, e vogliono sempre di più. E’ una questione di libertà. Se non si dispone di molti beni allora non c’è bisogno di lavorare per tutta la vita come uno schiavo per sostenerli, e si ha più tempo per se stessi». In un altro discorso, pronunciato alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, citando Epicuro e Seneca aggredì così lo sviluppo insostenibile del Pianeta: «Lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto, l’elementare. Perché è questo il tesoro più importante che abbiamo: la felicità!». E di felicità se ne intende un uomo che ha trascorso 12 anni in carecere, la maggior parte dei quali in isolamento.
Se ne va, a 79 anni, il presidente “più povero del mondo” lasciando dietro di sé un Paese in salute che mai come in questo periodo è stato fonte di attrazione di investimenti esteri. Se ne va dopo aver “seminato” le sue rivoluzioni sociali: depenalizzazione dell’aborto (nel 2012), matrimoni gay (2013) e legalizzazione della marijuana (approvata ma entrerà in vigore nel 2015). Se ne va, come era arrivato, nel silenzio della sua umiltà.
Roberto Romagnoli