Domenico Quirico, La Stampa 27/10/2014, 27 ottobre 2014
IL JIHADISTA DELLA PORTA ACCANTO NELL’INDAGINE DI KHALED FOUAD ALLAM: PERIFERIA DI LIONE, 1995, L’OCCIDENTE ATTACCATO DALL’INTERNO, COSÌ TUTTO È INIZIATO IN FRANCIA
E se la verità fosse semplice? Preferiscono uccidere piuttosto che pensare, ecco il guaio! Qualcuno li rifornisce continuamente di mezzi moderni per annientare uomini. Questa meccanica moderna è fatta per loro. Si accontentano, in attesa che arrivi il paradiso, della macchina per uccidere.
Si adatta a loro come un guanto. L’occidente ha industrializzato la guerra per metterla anche allo loro portata. È già alla loro portata.
Altrimenti come si può spiegare che è diventato così facile fare di uno studente, di uno spacciatore di droga, di un medico un soldato del califfato? Qui in Europa come in Libia o in Afghanistan.
È semplicissimo: voi aprite il grembiale e un soldato di dio vi casca dentro. Uomini di guerra quali di sicuro non se ne sono mai visti. Li prendete nelle periferie nostre e nelle città dove i minareti accudiscono la preghiera quotidiana e i buoni proponimenti del jihad, ma quello interiore, virtuoso. Date loro un biglietto aereo per un qualsiasi inferno: Siria, Iraq, Libia, Sahel, Sinai. Partono in piccoli gruppi, talvolta con il figlioletto, sì otto o dieci anni, un piccolo guerriero: vieni, ti porto nelle terre dove si prega il vero Dio. Sembra una vacanza, meglio che la partita di pallone nei cortili di cemento di quelli che un tempo erano i quartieri dei piccoli borghesi infedeli.
Si affrettano verso la meta, un po’ ebbri di attesa, esattamente come se andassero alla festa del sacrifico in famiglia a La Courneuve o a Shaerbeek. Non sono aspiranti killer o mercenari: davvero credono di scalare la santità, ma essa concentra veleni che la rendono disponibile, al momento buono, per ogni sorta di violenza. Il popolo dell’islam totalitario non è che una folla perpetuamente illusa dall’Oratore invisibile, dalle voci venute da tutti gli angoli della terra, quelle voci che lo prendono alle viscere, tanto più convincenti quanto più si sforzano di parlare il linguaggio stesso dei suoi desideri, dei suoi odi, dei suoi terrori. Questa volta scenderanno alla stazione inferno: Aleppo, Mosul. Per una settimana, un mese, un anno (ma quanti arriveranno a un anno?) percorreranno questo inferno sotto una pioggia da fusione di acciaio, attenti a ripetere le cinque preghiere senza dimenticanze, o occupati a sgozzare l’Altro: il traditore, il nemico, l’ostaggio. Con una palla nel ventre si stendono nella trincea e sillabano la preghiera: siano martiri. Non c’è ospedale, licenza, ritorno a casa…Il giorno della vittoria… beh! Il giorno della vittoria questo inferno diventato califfato sarà la loro nuova casa.
Leggo il libro di Khaled Fouad Allam, uno dei pochi studiosi che scrivano libri onesti sull’islam contemporaneo: «Il jihadista della porta accanto» (pubblicato da Piemme). Penso che soltanto uno studioso di origini algerine poteva capire così bene questa commistione micidiale di barbarie medioevale e di raffinatezza sistematica dei totalitarismi moderni che si chiama califfato. Perché gli algerini sono i primi che hanno provato. Per loro assassini e vittime, a decine di migliaia, non sono tendenze storiche, sono state persone.
Accade sempre così in occidente quando nasce un sistema totalitario. Il nostro sguardo esaminatore vede strutture, al posto dell’individuo vede masse, cittadini consumatori ceti classi gruppi.., Si rompono le cateratte dei bassifondi e ne strisciano fuori terrore arbitrio fanatismo. Intanto l’imbeccata islamista si fa ogni giorno più indigesta. Il totalitarismo religioso, tribale e imperialista, questa deformazione confluita da più fonti aberranti, e che ha nel neo califfo di Mosul infoiato di vendetta il suo profeta, questa ricetta vuol essere propinata ai popoli dell’islam che pur ha già avuto il fascismo modernista dei dittatori con le più grossolane droghe demagogiche.
Fouad Allam, invece di gettarsi su queste piste sociologiche, tira fuori un vecchio articolo di giornale: Le monde del 29 settembre 1995, quando un giovane franco algerino fu ucciso da poliziotti che minacciava con un’arma nella periferia di Lione. Cronaca nera? In fondo il ragazzo era un rapinatore, un bandito della cité. No, molto di più, è la radiografia di quello che oggi viviamo nel vicino oriente. Khaled Kelkal, questo il suo nome, è la biografia con vent’anni di anticipo di migliaia di reclute del califfato che ha preso il posto del terrorismo. Ecco: il jihadismo è diventato una persona, respira, parla, maledice; odi e false speranze, fragilità e errori. Per una volta sapere chi e cosa sono. Quanti Kelkal ci sono nelle periferie del pianeta musulmano e in quelle nostre? E perché non ce ne siamo accorti?
Kelkal è figlio di una famiglia della prima immigrazione, i tempi delle «etno-banlieu», operai che vivono nei quartieri della piccola borghesia francese che questa ha abbandonato per luoghi migliori. Studia, fino a un certo punto bene, il baccalauréat, può andare all’università, diventare ingegnere forse. E invece getta tutto e diventa un bandito.
Allam rilegge un’intervista che gli fecero durante uno dei soggiorni in prigione. È lì che inizia e si compie la sua re-islamizzazione: non più la religione quieta di ‘«ad al kabir’» festeggiata in famiglia e del ritorno nostalgico, ma breve, d’estate al Paese, in Algeria. No: l’islam identità, dei «beur»: «In prigione in una settimana ho imparato a leggere l’arabo… ho ripreso la religione, andrò alla moschea ogni venerdì… quando i teologi parlano non si può più negare: c’è un Creatore. Non esiste il caso. Ogni cosa ha il suo posto, ogni cosa ha il suo significato, non posso negarlo». E ancora: «Io non sono né arabo né francese, sono musulmano… ci prostriamo tutti davanti a Dio, non esistono più razze, più niente, tutto si spegne. È l’unicità, siamo uniti…».
Ai tempi di Kelkal non c’era la Siria, il Sahel in fiamme e il califfato. Non si poteva diventare terroristi in nome di Dio. La sua jihad, Kelkal la esaurisce assaltando banche, fracassando auto e negozi, saccheggiando.
Oggi Kelkal sarebbe vestito di un barracano nero in qualche città del califfato. Apre la porta di una botola oscura dove vengono tenuti i prigionieri che con il cuor stretto dall’angoscia, l’orecchio attaccato alla serratura, hanno ascoltato il bisbiglio funebre dei loro aguzzini. «Jalla! Andiamo». «Dove andiamo?» chiede il prescelto nel mazzo degli sventurati con voce tremante, un americano o un inglese. Lo caricano su un pick-up dove ci sono altri armati, anche loro non sopra i vent’anni: scuri, tenebrosi, lo sguardo vagante. La camionetta scricchiola, parte. Abbandona la strada maestra, un sentiero appena segnato nel deserto. Altri uomini attendono con una videocamera. Fanno inginocchiare lo straniero, Kelkal impugna un coltello e recita: «Nel nome di Dio grande e misericordioso».
Ora l’uomo giace nella sabbia, la gola squarciata su un orribile cuscino di sangue nero.
Domenico Quirico, La Stampa 27/10/2014