Aligi Pontiani, la Repubblica 27/10/2014, 27 ottobre 2014
CALCIO, ORA È IMPENSABILE TORNARE INDIETRO
Si può fare questo al calcio italiano? È giusto passare da 62 milioni l’anno di finanziamento pubblico, attraverso i contributi del Coni, ai 35-40 ipotizzati in questi giorni (peraltro non si capisce bene in base a quali calcoli) dagli addetti ai lavori? Volendo usare soltanto la ragione dei numeri, la risposta va cercata altrove. In Inghilterra, per esempio, dove il calcio riceve 8,8 milioni l’anno. In Spagna, dove il calcio ha rinunciato già da anni a qualsiasi contributo pubblico. In Francia, dove lo stato sostiene il pallone con 2,8 milioni l’anno. In Portogallo, dove si arriva a 3 milioni. In Germania, infine, paese campione del mondo, dove non c’è stato neppure bisogno di fare il bel gesto di rinunciare a qualcosa, come fatto dagli spagnoli: mai previsto un soldo pubblico per il pallone. Questo dicono i numeri degli altri, che andrebbero sempre ricordati quando pensiamo ai nostri 62 milioni. Certo, ogni paese ha un suo sistema, c’è chi ha i ministeri dello sport, chi le regioni autonome, chi altri criteri organizzativi e di finanziamento. Di sicuro, però, il sistema italiano non può più vantarsi di rappresentare un modello invidiato da tutti, e la favoletta del paese che se la batte con i colossi dello sport alle Olimpiadi suona ormai vuota. I sintomi del declino cominciano a intravedersi anche nel medagliere delle grandi manifestazioni, oltre che nei tassi di abbandono dell’attività sportiva scolastica, negli indici di sedentarietà e nelle percentuali di obesità infantile, quelli sì da podio mondiale. Dunque, il calcio privato del suo smisurato malloppo di soldi pubblici fa impressione, certamente, ma solo perché in Italia siamo abituati così, dai tempi gloriosi del Totocalcio, quando la schedina finanziava tutti, e la schedina la faceva il calcio con le sue partite tutte alle 15 della domenica. Sembra il medioevo, anche se un medioevo felice: ora la schedina è estinta, in questo turno non ci sono state più di tre partite in contemporanea, le tv finanziano le squadre di serie A con un miliardo di euro, la stessa Federcalcio ottiene oltre il 60% dei suoi ricavi da finanziamenti privati (tv, sponsor, merchandising, ecc). Ed è così ricca da poter pagare 4,5 milioni l’anno il suo commissario tecnico: quello dell’atletica, per dire, guadagna circa 70 mila euro l’anno. Ma non è il caso di fare demagogia: il calcio non è come gli altri, certo che no. Ha 700 mila tesserati più della pallavolo, seconda in classifica, anche se quando si passa agli agonisti la differenza scende a meno di 300 mila. Il calcio è la grande passione nazionale: dunque, è pensabile spogliarlo di risorse tanto importanti? La risposta è no, non tutto in un colpo solo, come pure, applicando in modo rigoroso i nuovi parametri Coni, potrebbe accadere: il calcio, secondo i calcoli più estremi, potrebbe passare addirittura da 62 milioni a meno di 10. Non accadrà, non sarebbe giusto. Ma neppure era giusto riconoscere alla Figc contributi pubblici 12 volte superiori a quelli dell’atletica, 20 volte superiori a quelli di pallavolo o basket. Non solo non era giusto: era assurdo. E poco importa ricordare che il calcio spende 40 milioni l’anno solo per gli arbitri. Gli arbitri ci sono anche in Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, dove li pagano le leghe. È ora che il calcio capisca che la pacchia è finita, e che riformarsi significa anche questo: rifare i conti, rimboccarsi le maniche, cambiare passo e sistemi. Che ci possa riuscire la federazione di Tavecchio è tutto da vedere. Ma che il Coni possa tornare indietro da questa sorta di rivoluzione, è invece del tutto impensabile.
Aligi Pontiani, la Repubblica 27/10/2014