Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

È ASSURDO CERCARE LE ORIGINI DELL’EUROPA COME LA CONOSCIAMO NELL’ALTO MEDIOEVO. LO STUDIOSO BRITANNICO CHRIS WICKHAM CRITICA LE STORIOGRAFIE ROMANTICHE NAZIONALISTE E PROPONE UN APPROCCIO NUOVO SUL TEMA DEL RAPPORTO TRA POTERE POLITICO E RELIGIONE CRISTIANA


L’Europa è senza passato. Chiunque nell’anno Mille avesse cercato i segni di una futura industrializzazione non avrebbe mai scommesso sull’economia delle regioni renane o dei Paesi Bassi, quanto piuttosto su quella dell’Egitto. E parlare di futuro sviluppo del Lancashire sarebbe sembrato a tutti uno scherzo. È quel che fa notare Chris Wickham in un importante libro, L’eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C. , pubblicato da Laterza nell’ottima traduzione di Renato Riccardi. Sono dunque poco seri quelli che parlano di quei tempi definendoli «albori dell’Europa». Wickham spiega di aver fatto riferimento all’anno 1000 per il fatto che «l’eredità di Roma» nel continente durò all’incirca fino a quell’anno e poi, «dopo quella data, la sua ombra, lentamente, scomparve». Inoltre «perché», afferma, «nel X secolo volevo analizzare le divergenze tra gli Stati che subentrarono a quello carolingio», soprattutto tra l’Inghilterra post-alfrediana (Alfredo era stato il re del Wessex, morto nell’899, che aveva combattuto contro i Danesi e dato inizio al processo di unificazione del suo Paese) e l’Impero bizantino. Senza aggiungere, nell’XI secolo, la stagione dei Turchi selgiuchidi, la riforma gregoriana (cioè della Chiesa ai tempi di Gregorio VII, Ildebrando di Soana) e «l’inizio del grandioso racconto che ha come faro il progresso morale». Nondimeno «non sembra irragionevole» rilevare proprio in quegli anni «un cambiamento fondamentale nelle categorie del potere politico, anche se solo in alcune parti d’Europa». Ma dell’Europa come tale è pressoché impossibile rintracciare lì una coerente storia originale.
L’Europa altomedievale, denuncia Wickham, è stata oggetto di «ripetuti fraintendimenti», che ce ne hanno dato «una falsa immagine». L’alto Medioevo è stato collocato all’origine di un tale numero di Stati nazionali europei «da aver acquisito una portata mitica per gli storici di tutte le generazioni da quando, all’inizio del XIX secolo, il nazionalismo è diventato una possente visione politica». È stata prodotta una gran mole di libri «che vanno a caccia di germi di una futura identità nazionale o europea, della quale si afferma l’esistenza nel 1000 in Francia, Germania, Inghilterra, Danimarca, Polonia, Russia». Il tutto per dare fittizi alberi genealogici ad identità nazionali che sono venute alla luce secoli dopo. Come se gli storici fossero diventati studiosi di araldica alla ricerca di stemmi e blasoni in grado di fornire lustro ai titoli nobiliari dei propri Stati.
La storia altomedievale in questo modo è diventata parte di una teleologia, vale a dire «la lettura della storia alla luce di quello che (magari inevitabilmente) ne è seguito, come incamminata cioè verso qualcosa che spieghi perché noi — inglesi, italiani, europei (occidentali) — “siamo i migliori”». O quanto meno, «per comunità non eccessivamente compiaciute di sé», perché «siamo diversi». Tanto più che la scarsità di documentazione consente ricostruzioni di fantasia e fa sì che gli storici più seri facciano fatica a mettere scientificamente in discussione questo genere di ricostruzioni. Ma quelle di stampo nazionalistico, afferma Wickham, sono sempre «letture falsate». Anche quando — e può capitare — siano basate su dati non scorretti.
In spirito di onestà intellettuale si può, anzi «si deve», affermare che l’Europa non nacque nell’alto Medioevo. Nel 1000, fatta eccezione per il debolissimo senso di comunità che univa i territori cristiani, nessuna identità comune teneva assieme la Spagna alla Russia, l’Irlanda all’Impero bizantino (che comprendeva gli attuali Balcani, Grecia e Turchia). Non esisteva «nessuna comune cultura europea». Né vi era alcun segno che l’Europa, in un futuro ancora piuttosto lontano, si sarebbe sviluppata a tal punto, economicamente e militarmente, da poter dominare il mondo. In termini politico militari, «le estremità sud-orientali e sud-occidentali dell’Europa, Bisanzio e al-Andalus (la Spagna musulmana) vantavano gli Stati più importanti del continente», mentre nell’Europa occidentale l’esperimento carolingio si era concluso con lo smembramento di ciò che oggi sono Francia, Belgio, Germania occidentale, e con questa dissoluzione era andata in frantumi l’entità politica egemone dei quattrocento anni precedenti. Nell’anno 1000 lo Stato occidentale più coeso, l’Inghilterra meridionale, era minuscolo. Ben più importante era Bisanzio. Ma l’identità nazionale bizantina, denuncia Wickham, non è stata molto considerata dagli storici, per il fatto che nessuno Stato nazionale moderno discende in linea diretta da quell’Impero. Francia, Germania e Spagna (sia quella cristiana che quella musulmana) non avevano un’identità nazionale paragonabile a quella bizantina. L’idea di una «nascita dell’Europa» così come quella della nascita, mille anni fa, di gran parte delle future nazioni europee «è dunque non solo teleologica, ma prossima a pura fantasia».
Di più, scrive Wickham: ogni lettura dell’Impero romano del V secolo in ragione «dei fattori che condussero al suo crollo», o della Francia per mettere in risalto ciò che portò al potere Carlo Magno, o dell’attivismo papale del X secolo per definire «quel che ebbe come esito la riforma gregoriana», o del dinamismo economico del mondo arabo nei termini «della sua (presunta) sostituzione da parte degli italiani e poi dei produttori e dei mercanti dell’Europa settentrionale», è una «lettura del passato falsa». Proprio così: «falsa». Ma come è possibile che questo genere di rappresentazioni abbia ancora corso? Perché i «documenti» sono pochi e perciò stesso «integrabili» con ricostruzioni solo apparentemente deduttive. Scrivere la storia dell’alto Medioevo, sottolinea l’autore, «implica dunque una lotta permanente con la scarsità delle fonti disponibili, giacché gli storici tentano senza requie di trarne rappresentazioni sempre più articolate». Ed è «poco saggio» prendere una qualunque fonte troppo alla lettera.
Il più prolifico dei cronisti altomedievali, Gregorio vescovo di Tours (visse e fu attivo nella seconda metà del VI secolo), autore di una lunga storia della Gallia franca in gran parte relativa ai suoi tempi, nonché di numerose vite dei santi, fu anche un vivace protagonista politico, con esplicite simpatie e antipatie tra i suoi contemporanei. Oltretutto non fu quasi mai testimone diretto dei fatti di cui si occupò. Talché si può tranquillamente affermare «che non c’è da credere a ciò che Gregorio racconta». E in effetti «sarebbe impossibile sfuggire a una tale conclusione anche perché, in questo caso, l’assenza di altri riscontri per il periodo di cui scrive, significa che Gregorio è la sola fonte per la maggior parte di quel che afferma a proposito della Gallia del suo secolo». Si deve riconoscere che «se anche tutte le affermazioni di Gregorio fossero invenzioni — e raffinate invenzioni, fatte per di più a scopi edificanti — nondimeno egli scriveva in modo realistico». I suoi resoconti sono perciò preziosi. Ma non vanno presi alla lettera.
Inoltre, la storia come la conosciamo è il frutto di una tradizione storico-giuridica e, sino alla metà del XX secolo, si scriveva dando per scontato che se una legge ordinava qualcosa, la popolazione aveva poi adottato il comportamento prescritto. Ma «se questo non è vero per la società contemporanea, con tutto il potere di coercizione a disposizione del sistema giudiziario, è lecito pensare che dovesse essere molto meno vero nell’alto Medioevo, quando gli Stati erano più deboli (sovente molto deboli) e spesso era persino improbabile che le plebi conoscessero quale legge un sovrano avesse emanato».
I valori attuali, scrive Wickham, il liberalismo, la secolarizzazione, la tolleranza, il senso dell’ironia, l’interesse per le opinioni altrui, per quanto superficiali possano essere nella nostra società, erano del tutto assenti mille anni fa, o al meglio presenti solo allo stato embrionale (come invero sono stati assenti dalla maggior parte delle società del passato). Nell’alto Medioevo, com’è ovvio, «gli individui avevano il senso dell’umorismo, ma quel che li divertiva (vale a dire il dileggio e i giochi di parole grossolani) non li avvicina affatto alla nostra esperienza: certamente usavano l’ironia, ma di solito era piuttosto feroce e sarcastica». Quasi tutti gli scrittori dell’epoca, persino i rigoristi religiosi che si rifacevano all’egualitarismo della teologia del Nuovo Testamento o del Corano, «davano per scontata l’immutabilità della gerarchia sociale e l’innata virtù morale del ceto aristocratico dal quale per la gran parte venivano». Il «servilismo verso i socialmente superiori» e «la compiaciuta coartazione dei socialmente inferiori» erano condotte considerate normali e persino virtuose; così come l’assunto generale («per quanto è dato vedere») dell’intrinseca superiorità degli uomini sulle donne. Non c’era ombra di razzismo, ma «la generalizzata credenza sciovinistica che gli stranieri fossero inferiori e stupidi ne faceva abbondantemente le veci».
Sulla base di queste osservazioni, Wickham si è persino posto il problema di immaginare con quale scrittore tardoantico o altomedievale avrebbe avuto piacere a intrattenersi ed è stato capace di individuare solo cinque nomi: Teodoreto di Cirro, Gregorio Magno, Eginardo, «forse» Braulio di Saragozza e, «con minore entusiasmo», Agostino, «per la notevole intelligenza e consapevolezza di sé, non per la tolleranza». Tutto questo, però, rende, a suo avviso, ancora più interessante lo studio della seconda metà del primo millennio. Interesse provocato proprio dalla distanza anziché dalla vicinanza tra il Medioevo e i tempi nostri. È in quell’epoca che si ha la prima e la più decisiva rottura della storia: lo smembramento dell’Impero romano d’Occidente. Anche se, sottolinea Wickham, «la vecchia immagine di una cultura romana spazzata via dalla vitale barbarie germanica è irrimediabilmente superata». Il corrispettivo orientale della rottura del V secolo «è costituito dal culmine della conquista araba del 636-51, fatto che aprì due secoli di crisi per il mondo romano bizantino, spingendo Bisanzio, in via duratura, verso una diversa traiettoria politica, di maggiore centralizzazione e militarizzazione». Naturalmente «il califfato arabo era del tutto nuovo, anche se è possibile sostenere che le sue radici strutturali fossero altrettanto romane di quelle dei bizantini». La ricchezza del califfato e la debolezza dello Stato bizantino del VII secolo («per non parlare dei regni occidentali») spostarono «l’epicentro della politica molto più ad est di quanto non fosse stato da quasi un millennio a quella parte: dapprima in Siria e poi, dopo il 750, in Iraq. E quando, dopo l’800, nel Mediterraneo riprese vitalità il commercio a medio raggio, il centro di tali attività economiche era l’Egitto».
E siamo così al punto da cui abbiamo preso le mosse: mille anni fa non c’era traccia dell’Europa come la intendiamo oggi e se si può considerare che qualcosa si muovesse verso la modernità, ciò accadeva sulle coste settentrionali dell’Africa. Quanto all’affermarsi di una «prassi politica di esplicito contenuto moralizzatore», però, se ne possono cogliere i segni nel secolo che va dal 780 all’880 nella Spagna visigota e nell’esperienza di Carlo Magno e dei suoi successori. I Carolingi, afferma Wickham, «strinsero tra lo Stato e una Chiesa semiautoritaria un legame che per due secoli divenne la norma nell’Occidente latino, sino a che i Papi, da Gregorio VII (1073-1085) in avanti, cercarono nuovamente di scioglierlo». Tentativo «riuscito solo in parte e poi ribaltato nell’Europa settentrionale dalla Riforma del XVI secolo». Inoltre i Carolingi furono all’origine dell’assunto secondo il quale «i re e i loro atti potrebbero e dovrebbero venir controllati dagli ecclesiastici sotto il profilo morale, la qual cosa già a partire dal IX secolo fu fonte di numerosi problemi per sovrani quali Ludovico il Pio e Lotario II, e avrebbe continuato ad esserlo ancora a lungo per molti dei loro successori in Europa». Si può aggiungere che l’Impero bizantino e il califfato furono certamente «pari ai Carolingi quanto a baldanza religiosa, ma nessuno dei grandi imperi orientali avvertì allo stesso modo l’urgenza di un programma analogo a quello carolingio».
Per questi motivi è di estrema importanza definire la questione delle «radici cristiane» di un’Europa che, senza quelle radici, resterebbe senza alcun passato. Senza contare la rottura che è rappresentata dalla fine del mondo carolingio: «non tanto il venir meno dell’unità del sistema politico franco tra la metà e la fine del IX secolo (unità che nessuno, persino all’epoca, pensava potesse durare), quanto piuttosto il disintegrarsi, intorno all’anno 1000, delle stesse strutture di potere pubblico» da ogni parte di quel sistema. Ed è anche per questo che è impossibile rintracciare nella storia di mille anni fa segni coerenti di quel che sarebbe venuto – per decisione politica – dieci secoli dopo.