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 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

LA TECNOCRATE SENZA CUORE DILMA ROUSSEFF È STATA RICONFERMATA CON FATICA PRESIDENTE DEL BRASILE. LA PUPILLA DI LULA HA SUPERATO GLI INCUBI DEL MUNDIAL. RISCOPRENDO IL PASSATO DA GUERRIGLIERA, DOVE NON BASTAVA L’ECONOMIA


Quando Dilma Rousseff vinse le elezioni quattro anni fa, si disse che Lula avrebbe potuto realizzare il miracolo della sua successione con chiunque. Persino con una fredda tecnocrate esperta in energia, mai candidata nemmeno in un condominio, con evidenti difficoltà ad affrontare una telecamera o scaldare un elettore. Dilma ce la fece allora con uno sponsor imbattibile e supera la seconda prova adesso. A fatica, dopo una guerra elettorale sporca, ma con la sua faccia e usando la vecchia tattica del salto nel buio. È riuscita a convincere la maggioranza dei brasiliani a non cambiare strada, non rischiare dopo dodici anni di miglioramento della qualità di vita. Con tutti i limiti e le fragilità, il Brasile di Dilma è un Paese con piena occupazione e dove girano ancora molti soldi. Dove un numero enorme di persone in difficoltà riceve aiuti decisivi dallo Stato e una nuova classe media compra auto ed elettrodomestici, viaggia in aereo e mangia carne tutti i giorni.
Dilma II — odiata dai mercati finanziari e dalla borghesia di San Paolo — è oggi una donna di 66 anni con esperienza alle spalle e tutta la malizia che serve. È riuscita con l’aiuto di una micidiale squadra di marketing e l’intervento finale del suo mentore Lula a risalire la china. Un anno e mezzo fa la sua popolarità non superava il 30%, le strade erano invase di manifestanti arrabbiati e il Brasile era convinto che l’organizzazione incerta del Mondiale di calcio ne avrebbe decretato la sua fine politica. Da quel momento, il vento è cambiato. L’economia stagnante — tutta colpa sua, dicono i detrattori, troppo interventismo — non ha avuto finora conseguenze rilevanti sulla vita quotidiana dei brasiliani, un po’ di cosmesi sui conti ha aiutato e la macchina di consenso del potere è sempre assai forte. Il suo uomo-immagine, João Santana, è conosciuto per la sua spregiudicatezza. Due anni fa in Venezuela convinse la gente a rieleggere Hugo Chávez, nonostante fosse in fin di vita. Stavolta ha trasformato l’immagine di zia burbera nel «coração valente», il cuore coraggioso del popolo, riempiendo il Brasile di immagini della Rousseff ventenne guerrigliera, quando venne incarcerata e torturata. Peggio, ha poi distrutto con la forza della tv l’avversaria Marina Silva e ridimensionato il recupero di Aécio Neves, mostrando negli interminabili spot un Paese felice che rischia di perdere tutto se Dilma viene mandata a casa. La «presidenta» è riuscita a superare quasi indenne i duelli tv con Neves, seppur quest’ultimo chiaramente superiore per dialettica.
Dilma e Lula hanno poi compattato come un esercito fedele l’elettorato del Nordest povero, dove milioni di famiglie ora mangiano e consumano grazie agli aiuti lanciati nei loro governi. La mappa elettorale del Brasile ne esce spaccata in due, il Partito dei Lavoratori è stato distrutto persino nella periferia operaia di San Paolo, dove nacque, ma l’operazione ha comunque avuto successo. Il consenso al governo è talmente forte in alcune fasce sociali e regioni da essere riuscito a controbilanciare il forte arretramento in altre.
La Rousseff è ora attesa alla prova più difficile. I suoi avversari dicono che l’economia dovrà pagare il conto, perché il governo ha nascosto la polvere sotto il tappeto per superare la prova elettorale. Lei dice che non c’è bisogno di manovre o tagli, il Brasile continuerà a crescere e ridurre la povertà con le politiche fin qui seguite. Ha promesso una lotta dura alla corruzione, nonostante gli scandali continuino a colpire soprattutto il suo partito: metà della sua vecchia cupola è in galera per fatti risalenti all’era Lula. E dovrà cercare di rimarginare le ferite lasciate da una campagna elettorale violenta, che per la prima volta in decenni ha lasciato il Brasile lacerato. Anche se le alternative nell’urna non erano così secche come i due candidati hanno voluto far credere.