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 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

ARTICOLI SU RENZI E LA LEPOLODA DAI GIORNALI DEL 27/10/2014

STEFANO FOLLI, IL SOLE 24 ORE -
Alla Leopolda di Firenze abbiamo assistito alla Bad Godesberg di Matteo Renzi. S’intende che non c’era molto in comune con il processo appassionato e persino drammatico di revisione politica e ideologica del 1959.
Un processo che portò la socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt a rompere con il marxismo e ad accettare la logica dell’economia capitalista. Stavolta i conti con la storia si sono fatti in forme assai più sbrigative e mediatiche. Ma si capisce. Non solo il marxismo, ma anche un certo modo di intendere la funzione sindacale e partitica sembrano reperti di un passato remoto. Tutto è stato più o meno già scritto e certe intransigenze sembrano volte a difendere la sopravvivenza di un ceto politico piuttosto che a difendere una prospettiva per il domani.
Le polemiche di Rosy Bindi o di Stefano Fassina ormai non alimentano alcun vero dibattito e al leader del 40,8 per cento appaiono solo punture di spillo indisponenti. La Cgil in piazza con i suoi slogan "retro" gli fa gioco: esalta la supposta modernità del messaggio innovativo che entra ogni giorno, con metodo scientifico, nelle case degli italiani.
In ogni caso la Bad Godesberg renziana costituisce un passaggio significativo. Finisce un mondo. Non solo quello in cui la Cgil e la sinistra di derivazione comunista erano titolari dell’unico potere inattaccabile nell’Italia sfilacciata dell’ultimo ventennio: il potere di veto. Finisce anche il Pd così come l’aveva immaginato e costruito Romano Prodi. Un Pd che teneva insieme, magari in modo velleitario, diverse culture politiche e si sforzava di essere la "casa comune" di ex comunisti, cattolici di sinistra, più qualche liberal-democratico e altrettanti socialisti. Gente che non arrivava mai oltre il 25 per cento, dice oggi sprezzante il premier che è anche segretario di un nuovo Pd in rapida trasformazione, già oggi totalmente diverso da quello di uno o due anni fa.
Agli ultimi rappresentanti di quella stagione, agli ex comunisti che di tanto in tanto rialzano la testa con l’idea di contare ancora qualcosa, Renzi fa capire che possono andarsene o restare: l’importante è che non si illudano di poter gestire uno spicchio di potere, seppure minimo. Su questo punto, niente da fare. Il loro elettorato è minoritario, come è minoritaria la Cgil al giorno d’oggi, quando anche i giovani si rendono conto che non è più tempo di posto fisso. Del resto, la manifestazione di Roma era una sfida aperta al premier e non c’è da meravigliarsi che la risposta sia stata altrettanto dura.
Fin qui tutto chiaro e persino prevedibile. Quello che si capisce meno è quanto siano solide le radici del nuovo Pd renziano. Una volta fatta la Bad Godesberg e saldati i conti non con Karl Marx, bensì con la Bindi, l’interrogativo è: bastano le parole d’ordine nuoviste e un discorso spavaldo per sedurre e catturare l’elettorato di centro e di centro-destra, quello a cui esplicitamente Renzi guarda? Forse sì, data l’assoluta assenza di alternative. Ma le incognite della svolta non sono poche. E non riguardano la malinconica sopravvivenza di un piccolo mondo antico, bensì la capacità di governare l’Italia in tempi calamitosi, quando un certo grado di populismo è inevitabile, ma un eccesso di demagogia può essere fatale.

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FRANCESCO ALBERTI, CORRIERE DELLA SERA -
A volte non ritornano. E stavolta potrebbe essere una di queste. «Non consentiremo a quella classe dirigente di riprendersi il Partito democratico e di riportarlo dal 41% al 25%, non consentiremo di fare del Partito democratico il partito dei reduci». Non è giornata da show. Matteo Renzi cala il carico pesante. Gli è andato decisamente di traverso quel termine («imbarazzante») con il quale Rosy Bindi ha bollato dal corteo della Cgil la Leopolda fiorentina. Vecchia guardia o notabili, comunque li si voglia chiamare, si mettano l’animo in pace: se «il futuro è solo l’inizio» — come recita lo slogan di questa quinta Leopolda da ieri in archivio — loro ne resteranno ai margini, almeno fino a quando il partito sarà guidato da Renzi. E non si illuda chi, sulla scorta di «manifestazioni di piazza che vanno certamente rispettate ma non sono mai state la risposta al precariato», coltiva tentazioni scissioniste: «Non ho paura che si crei a sinistra qualcosa di diverso — ha alzato la voce il premier-segretario, offrendo agli avversari interni il guanto della sfida —. Sarà bello capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro. Tutte le volte che la sinistra radicale ha compiuto uno strappo, ha perso e ha fatto perdere l’Italia».
Non c’è leggerezza nell’ultima giornata della Leopolda. L’ottocentesca stazione è piena come un uovo. Pubblico di ogni età e dei più svariati umori politici. A metà mattina, su consiglio dei vigili del fuoco, vengono transennati gli ingressi per motivi di sicurezza e molti restano fuori davanti ai maxischermi. «Non parlerò della Leopolda» ha esordito Renzi. E così è stato. L’onda della piazza romana, che lo si voglia ammettere o no, è arrivata fin qua. Platea elettrica, che si esalta quando il premier va a testa bassa contro la vecchia guardia e i suoi totem. «Il posto fisso non c’è più — afferma Renzi —. E allora che fa un grande partito di sinistra? Un dibattito ideologico? O piuttosto una legge che si faccia carico di chi ha perso il lavoro?». Continuare ad aggrapparsi all’articolo 18, prosegue il capo del governo, «è come voler mettere un gettone del telefono in un iPhone». Il mondo è cambiato, indietro non si torna. E il confronto si infiamma. Susanna Camusso, da Torino, controbatte: «Mi pare che il premier non ha argomenti per contrastare ciò che abbiamo detto circa i cambiamenti della delega del lavoro. Non fa che ripetere che gli imprenditori sono i suoi ispiratori. Domani (oggi, ndr ) incontreremo il governo, speriamo si possa discutere». Il ministro Poletti, dalla Leopolda, mette paletti: «Il cuore del Jobs act non si tocca». E nel Pd i bersaniani promettono battaglia: «Se Renzi punta a una rottura — afferma Alfredo D’Attore — se lo tolga dalla testa: resteremo nel partito per correggere le sue politiche sbagliate». Ma Renzi è già oltre, la lista degli avversari non è finita. Tra gli immancabili gufi che «aspettano solo la nostra caduta», il premier ci infila «una parte del ceto intellettuale» paragonato «a quei pensionati che guardano i cantieri di lavoro e scuotono la testa». Chiusura dedicata al presidente Napolitano: «Su di lui tante menzogne, l’Italia per bene faccia sentire il suo affetto».
Francesco Alberti

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MARIA TERESA MELI, CORRIERE DELLA SERA -
Che fosse così, Matteo Renzi lo ha sempre saputo: «Ho voluto la bicicletta e adesso devo pedalare». Che avrebbe incontrato ostacoli nei «conservatorismi trasversali di tutti i tipi», anche: «C’è chi ha paura di mollare il potere che ha da più di vent’anni e ci farà una guerra senza esclusione di colpi».
Sono i burocrati, «l’aristocrazia dei ceti dominanti», quei «mandarini» che adesso nei ministeri si vedono arrivare gli uomini della nuova squadra del premier a gestire direttamente le pratiche più scottanti, sulla scia di ciò che succede negli Usa con lo staff del presidente, e non hanno più quella libertà incondizionata di cui godevano prima. E non c’è un uomo solo al comando, anche se, come sostiene Renzi, a un certo punto, «è giusto che la squadra mandi avanti il proprio leader a tagliare il traguardo». Ci sono le ministre e i ministri giovani (anche quelli assenti alla Leopolda per cause di forza maggiore, come l’alluvione di Genova, cioè Andrea Orlando) che sono determinati quanto il premier. E i meno giovani lo sono forse anche di più: basti pensare che il discorso più applaudito di ieri (a parte, ovviamente, quello di Renzi) è stato l’intervento di Giuliano Poletti.
Però ci sono anche degli «avversari» che non sembrano far paura premier. Anzi gli fanno gioco. Sono i rappresentanti della minoranza interna che sabato hanno sfilato a Roma. Ecco, loro, per Renzi non rappresentano un problema. Primo perché «non avere nemici a sinistra» o, quanto, meno «concorrenti», non è mai stato il suo assillo. Secondo, perché il premier non crede che Maurizio Landini formerà con quest’area un nuovo partito. E non solo perché Renzi, nonostante sia lontano anni luce dal leader della Fiom, lo considera «una persona seria». E quindi gli crede quando dice, quasi infastidito, che a lui «interessa lavorare nel sindacato» e non «occuparsi di politica». Ma perché ritiene che comunque non imbarcherebbe quella compagnia.
Perciò, per dirla con le parole di un renziano dai modi spicci, «mena come un fabbro contro la vecchia guardia e la minoranza alla Bindi e Fassina». Il succo del suo ragionamento infatti è questo: «Non andranno da nessuna parte». Con sommo dispiacere di chi vorrebbe volentieri fare a meno di loro. Basta sentire che cosa dice Beppe Fioroni, che fa capolino anche lui alla Leopolda: «Penso che Matteo abbia veramente cambiato verso al partito e quindi a questo punto i vari Fassina & company dovrebbero andarsene con la Cgil, scindersi invece di restare qui con noi».
Ma il sogno di Fioroni non si avvererà. Anzi chi ha studiato bene le mosse di Renzi nei confronti della Cgil in questo periodo ha tratto l’idea che il premier abbia scientemente spinto Susanna Camusso all’inseguimento del leader della Fiom per consentire a Landini di portare avanti il suo vero progetto, ossia quello di lanciare un’Opa sulla Cgil. Già, perché infatti, ormai tra Renzi e Camusso sembra quasi una questione personale.
I due si stanno antipatici. Mentre nelle realtà territoriali gli uomini di Renzi collaborano con la Cgil, o, meglio, con lo Spi (il sindacato dei pensionati). La governatrice del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani sta scrivendo la riforma sanitaria della Regione insieme allo Spi. E con lo Spi collabora in Piemonte Sergio Chiamparino, a Firenze il sindaco Dario Nardella, in Lombardia Lorenzo Guerini.
E non doveva essere un caso se ieri, nel giorno dell’intervento finale di Renzi, alla Leopolda, in avanscoperta c’erano i portavoce di Landini, Giorgia Fattinnanzi, e della leader dello Spi, Carla Cantone, Lorenzo Rossi Doria.

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MONICA GUERZONI, CORRIERE DELLA SERA -
Gianni Cuperlo, per il premier la sinistra di piazza San Giovanni è roba da museo delle cere.
«Io non ho nostalgia di nulla, ma un partito deve dire con chi sta e per chi si batte».
La piazza dei «reduci» e la Leopolda dei «pionieri», per dirla con Renzi, prefigurano due diversi partiti?
«Ho più rispetto io per la Leopolda di quanto non ne abbia mostrato Renzi verso i lavoratori e i giovani che hanno riempito San Giovanni. Però mi sembra che da quel palco Renzi osservi il mondo con i google glass. È la scelta di un mondo parallelo depurato da rabbia, paura, speranza».
Non sono i leopoldini a coltivare la speranza?
«Nell’impianto della Leopolda c’è un’idea della politica dove l’impulso del leader prevale sulla forza del diritto. Però questa non è concretezza, è una radice del populismo».
Renzi populista?
«Quando usa l’articolo 18 e dice che parlare delle norme che tutelano dal licenziamento è come voler mettere un gettone nell’iPhone, offende il milione di persone che hanno riempito le vie di Roma. Questo non va bene. Il punto è se tu, per uscire dalla crisi più grave del secolo, lavori per unire il Paese e non per dividerlo».
Il premier spacca il Paese?
«Descrivere la piazza come quelli che girano col telefono a gettoni è non capire che usciremo da questa crisi solo tutti assieme e non l’impresa contro il lavoro, una generazione contro l’altra, il Nord contro il Sud. Chi guida il Paese dovrebbe unirlo, non denigrarlo».
La scissione è in atto?
«Io voglio innovare il Pd e per questo voglio correggere una linea dai riflessi antichi. La scissione sarebbe una sconfitta del progetto nel quale abbiamo creduto e sta a tutti evitare di precipitare lì, ma è chiaro che Renzi ha una responsabilità enorme».
Vuole spingervi fuori?
«Spero non sia così, ma il premier non può spezzare il filo che lega milioni di italiani a una speranza che nasce. La sinistra da immaginare vivrà dentro parole come dignità, diritti umani globali e non nel mito di un futurismo senza visione».
Si sente a casa nel Pd del finanziere Davide Serra?
«Se il Pd diventa quello di chi dice che bisogna mettere dei paletti al diritto di sciopero, il Pd non esiste più. La sinistra è di fronte a una prova decisiva. Ho chiesto a Renzi “che cos’è la Leopolda?” e non mi ha risposto. E se è vero che per intervenire bisognava inviare il testo scritto agli organizzatori, il partito di Togliatti era una avanguardia di liberalismo. A proposito di innovazione...».
Leopolda partito parallelo?
«Con Renzi il Pd rischia di diventare una confederazione e in un modello simile le diverse culture hanno il dovere, non il diritto, di organizzarsi. Il congresso è finito, c’è un’altra storia tutta da scrivere. La sinistra deve porsi questa sfida e io la vivo come un nuovo inizio. Se la Leopolda è una corrente organizzata attorno al premier è evidente che si organizzerà anche un’altra parte, che non è nostalgica del passato, ma che ha un’altra idea di modernità».
L’area di Bersani ci sta?
«Io so che questa è l’esigenza che abbiamo oggi. Io ho cominciato a farlo con SinistraDem, ma la sfida riguarda tutti in un campo aperto».
Per tornare al 25 per cento?
«No, il punto è che dividendo il Paese è Renzi che quel 40% rischia di sciuparlo. Per rimanere lassù c’è bisogno di una sinistra completamente ripensata, che non può liquidare il popolo di San Giovanni come arnese di un passato duro a morire».
L’articolo 18 è la coperta di Linus della sinistra?
«Il nodo è come assumere, non come licenziare. Serve un patto sociale per la crescita e su questo terreno quel popolo è pronto a fare la sua parte. La piazza di sabato parlava anche con le lacrime di chi non ce la fa più. Chi liquida quel mondo morale come un vizio del passato offende il popolo senza il quale il Pd cessa di esistere e nasce un’altra cosa. Io mi batto perché non accada».
Se il Jobs act non cambia, lei vota la fiducia o se ne va?
«Intanto mi batto perché quella delega cambi. La voglio più coraggiosa. Se poi il testo dovesse rimanere quello uscito dal Senato, per me si aprirebbe un problema di coscienza. Così com’è non lo condivido».

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TOMMASO LABATE, CORRIERE DELLA SERA -
«Se Landini si candida a fare politica? Lei è il numero 180. Dalla fine della manifestazione di sabato, ho sentito questa domanda 180 volte. E più io nego, più dico che non lo faccio, più la gente non ci crede». Alla fine della frase, Maurizio Landini si abbandona a un sorriso rilassato. Il leader della Fiom ha aspettato che la polvere di Piazza San Giovanni si togliesse dalle suole delle scarpe. Ha atteso anche che Matteo Renzi celebrasse la fine della Leopolda. E, anche se questo non lo dice, è convinto che da oggi si parlerà del «partito di Landini». Di quella forza che — magari sfruttando anche la scissione di un pezzo del Pd, magari no — potrebbe sfidare da sinistra il premier.
Giorgio Airaudo, deputato di Sel dopo una vita nella Fiom, che di Landini può dirsi «un fratello», la mette così: «Precisiamo una cosa. Questo è un momento troppo delicato per i metalmeccanici, che non possono permettersi di perdere una guida come Maurizio». Ma, a precisazione fatta, Airaudo — che è il primo teorico di un partito del «Lula italiano» — ammette che «c’è una “domanda” politica molto consistente che incontra la figura di Landini. La gente s’identifica con lui per la sua credibilità e la sua coerenza. Più che il numero di vittorie ottenute, conta la sua capacità di resistere di fronte a qualsiasi tipo di battaglia».
E dire che Landini, fino a due mesi fa, escludeva persino nei colloqui con gli amici la possibilità di mollare il sindacato per candidarsi. Poi è successo qualcosa che ha cambiato le carte in tavola. Il 27 agosto scorso, dopo il faccia a faccia con Renzi a Palazzo Chigi, il leader Fiom spezza anche all’interno del sindacato qualche lancia in favore del premier. «Vedrete», è la confidenza che fa, «farà delle cose di destra ma anche di sinistra. E soprattutto, mi ha garantito che non toccherà l’articolo 18». La presentazione del Jobs act, e con essa la rappresentazione plastica di quella promessa mancata, forse ha cambiato il corso degli eventi. E Landini, in privato, adesso non escluderebbe nulla.
«Landini farà quello che deciderà lui stesso», scandisce Nicola Fratoianni, numero due di Sel. E «qualsiasi cosa deciderà di fare», aggiunge, «la farà con grande efficacia». Per il coordinatore del partito di Vendola, però, «stavolta un processo politico sarà anticipato da un processo sociale. E questo è un tema da sottoporre subito».
Fratoianni è l’uomo che cura i rapporti con gli anti renziani del Pd, a cominciare da Pippo Civati. Quest’ultimo sostiene che «più Renzi picchia la sinistra, più si apre uno spazio a sinistra. È presto per fare nomi. Certo, Landini è uno dei soggetti più interessati a questo cambiamento». Perché il cambiamento potrebbe essere più rapido del previsto. «Se ci sarà la scissione nel Pd», dice sempre Civati, «non sarà certo colpa mia. E comunque, se Renzi dice di non aver paura della Cgil e della sinistra, si vede che un po’ di paura ce l’ha».
Dal partito di Vendola ai democratici che erano in piazza con la Cgil, passando per quella società civile non grillina che provava a far eleggere Stefano Rodotà al Quirinale. Tutti sicuri che, quando sarà l’ora di sfidare Renzi, toccherà a Landini. L’ora X? «Ribadisco che non c’è una manovra politica», giura Airaudo. Ma quando gli si chiede del timing del battesimo della Nuova Sinistra, il deputato di Sel confida che «non si può fare alle Regionali. Il momento della verità sono sempre le Politiche». Le stesse che Renzi, secondo la sinistra parlamentare extrarenziana, vorrebbe anticipare.
Gli anti renziani del Pd stanno alla finestra. «Se il Pd fa il Pd», sussurra Rosy Bindi, «a sinistra non ci sarà spazio. Ma se il Pd farà il post-Pd come alla Leopolda, lo spazio a sinistra si apre eccome. Quello che farà Landini? Dipende da lui». Poi, a chiunque gli chieda se lei starebbe più in un post-Pd o in un partito di sinistra, l’ex presidente dei Democratici risponde con un sorriso. «Fate i bravi...». Non dice sì, non dice no.
Tommaso Labate

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CONCITA DE GREGORIO, LA REPUBBLICA -
I reduci. Quelli del telefono a gettoni e del rullino nella macchina fotografica. Quelli che in fondo in fondo sperano che tu fallisca perché “se non ce l’abbiamo fatta noi figuriamoci loro”. Quelli che come il pensionato affacciato al cantiere scuotono la testa e dicono questa strada non si farà mai. Quelli che si aggrappano agli striscioni come alla coperta di Linus. La coperta ideologica di un mondo scomparso. Non si combatte il precariato con le manifestazioni né coi convegni, dice Matteo Renzi al milione di piazza San Giovanni e agli “intellettuali” col sopracciglio alzato («non applaudite, chi applaude è intellettuale », risate in platea). Difendete pure i diritti di chi ha il posto fisso, l’articolo 18 sui licenziamenti, «le leggi del 1970 che la sinistra di allora non votò» ma sappiate che il posto fisso non c’è più. È sparito, per chi arriva oggi al mondo, dal mondo. State solo difendendo voi stessi dall’eventualità che qualcun altro che non siete voi voglia e sappia cambiare le regole che tutelano il lavoro e «io non ho paura — grida — che nasca a sinistra qualcosa di diverso». Non ho paura della scissione della sinistra radicale perché «sarà bello sapere se è più di sinistra rimanere aggrappati alla nostalgia o prevedere il futuro». Infine, a Rosi Bindi per tutti: «Potete definire la Leopolda imbarazzante, ma io non consentirò a quella classe dirigente di riprendersi il Pd per riportarlo dal 41 al 25 per cento».
Dunque: i pionieri contro i reduci. I nostalgici contro i visionari costruttori di futuro. Il museo delle cere contro quelli che lo sanno eccome che nell’Iphone non entra il gettone, nella macchina analogica non ci va il rullino. «È finita l’Italia del rullino». Protestate pure, provate a infilarlo nella vostra macchina fotografica, sì, continuate pure a provare. Risate, applausi. Ora sì, potete applaudire.
È un attacco durissimo, quello di Renzi, all’altra sinistra. Quella di lotta che ha manifestato in piazza e per la quale ha proclamato rispetto, sabato, ma che ora in chiusura dei lavori della Leopolda di governo liquida come un retaggio novecentesco e minoritario, un sussulto del passato che non muore incapace di ammettere i suoi errori e guardare il mondo com’è diventato. È tranquillo, Renzi. Della scissione non ha paura perché non ci sarà, dice ai suoi e a Firenze ripetono tutti: finchè non c’è aria di elezioni non ci saranno scissioni e se il Capo dello Stato resiste al suo posto di elezioni non si parla. Da qui il passaggio politico più rilevante di tutto il suo discorso, a dieci minuti dalla fine: la difesa appassionata e la chiamata a sostegno solidale di Napolitano «attaccato da mille menzogne» all’antivigilia della deposizione sulla Trattativa Stato-mafia, in mezzo al guado dello stallo per l’elezione dei giudici della Corte. Un grazie dalla Leopolda al capo dello Stato, che resti dov’è e continui a garantire stabilità e governo.
È questo il giorno, del resto, nel quale sotto la Grande Tenda del Pd che piace a Renzi, «quello dove c’è posto per tutti, se volete venire, noi siamo quelli delle porte aperte. Lo eravamo anche quando volevano cacciare noi», è il giorno in cui arrivano sul palco la destra della sinistra — Andrea Romano, ex Scelta civica — e la sinistra che preferisce «essere minoranza che essere opposizione », quella di Gennaro Migliore e dei suoi undici fuorusciti da Sel che oggi presenteranno una lettera collettiva per entrare, come gruppo, nel Pd. Tutti tranne Claudio Fava, in dissenso con le politiche antimafia del governo. Un neo, questo dell’antimafia, che insidioso si affaccia e riaffiora a livelli altissimi e più popolari, ne parlava sabato qui anche Pif. Migliore difende dal palco il diritto di sciopero, «non uno ma il primo dei diritti perché l’ultimo ad essere esercitato come arma di difesa», e diventa ufficialmente garanzia e compensazione dell’effetto Serra inteso come Davide, il banchiere. Più Cucinelli, l’imprenditore che investe nella dignità del lavoro, meno finanza per quanto effettivamente creativa di profitti. Del resto Landini non farà il leader della sinistra, dicono attorno a Migliore i vecchi ex comunisti che pure ci sono, alla Leo- polda: Landini farà il leader della Cgil e allora chi resta, se perde Matteo, a darci speranza? Chi c’è in Italia, oltre a lui? Chi avanza, a parte — a destra — Salvini?
Questo il quadro, questa la cornice dentro la quale il premier si lancia in un’ora di discorso a braccio che parte dall’Europa, passa dalla Siria e dall’Iraq, attraversa il Mozambico e i grandi laghi, plana su Angela Merkel («la sua ossessione», dice uno dei suoi uomini ridendo) per ricordare che lei, Angela, ha preso 10 milioni e 600 mila voti, «noi 11 e 2».
Va in picchiata sul Jobs act, infine, per attaccare chi difende il posto fisso dicendo che «noi la maternità la vogliamo difendere per tutti, non per chi ha già un posto di lavoro. C’è qualcuno in dissenso?». Ovazione.
È diventato negli anni molto bravo, Renzi, nell’oratoria dal palco. Fa ormai persino il controcanto di se stesso, ogni tanto si ferma come se assistesse al discorso e si giudica, “oh, Matteo come sei invecchiato”, “Oh Matteo come l’hai presa alla larga”. Si commenta in diretta, parla alle ministre in jeans chiamandole per nome come compagne di scuola, passa dall’io al noi al voi per tornare all’io che comprende il voi, «quello che dobbiamo fare davvero, voi ed io, è vincere la nostra paura e ridare speranza e fiducia». Passa dalla Libia alla fila per il bagno, dove ha parlato con tanta gente e capito tante cose, nell’attesa — risate — riprende le parole di Giuliano Poletti che «se c’è una lattina per terra non bisogna domandarsi chi non l’ha spazzata ma chi è quel cretino che ce l’ha buttata». Annuiscono nelle prime file Ignazio Marino, Giorgio Gori, quello che ha tirato su la nave Concordia e quello che studia il vaccino contro Ebola, vecchi e nuovi amici della Leopolda, tanti arrivati ora che serve ma tantissimi che c’erano da prima e lui lo sa, chi sono. Ha la data della carta d’imbarco di tutti. Maria Elena Boschi, che all’inizio qui era solo una volontaria, parla sulla scia e sull’onda del video commoventissimo di Malala premio Nobel per la Pace, dissolvenza ed effetto traino per l’applauso. Gli ultimi arrivati salgano pure, pazienza se con meno effetti speciali, c’è posto anche per loro. Il partito del 51 per cento. Questo annuncia la quinta Leopolda. Il partito a cui non c’è alternativa, guardatevi attorno. Se poi volete ancora una volta distinguervi e fare la sinistra radicale, «che da decenni in questo paese si scinde poi perde e poi fa perdere tutti» accomodatevi, uscite pure. Risate.
Per il momento sono più quelli che arrivano che quelli che escono, dalla vecchia stazione di Firenze travestita da garage. Renzi promette di trovare in Mozambico risorse energetiche fino al 2046 e di governare fino al 2023. Se c’è qualcuno in giro che può promettere di meglio è il suo momento, si faccia avanti. In politica la scelta dei tempi è tutto, o almeno parecchio. Nella lunga lista di quelli che Renzi chiama reduci sono in tanti a saperlo.

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TOMMASO CIRIACO, LA REPUBBLICA -
Chiaro, quasi brutale: «Decido se andare via dal Pd nelle prossime settimane. Ma la verità è che è già tutto deciso, ha già scelto Renzi... Ci porterà al voto, altrimenti non avrebbe ingaggiato un duello del genere con il suo partito». Pippo Civati, con un piede già fuori dal Pd, entro un mese deciderà il suo destino.
Da Firenze volano ceffoni contro i “reduci” dem..
«Doveva essere la Leopolda della maturità, è stata quella storicamente più a destra, disinvolta e aggressiva. Il premier ha provocato, usando espressioni molto corrive. Un approccio destrorso, in linea forse con la pancia del Paese. L’iPhone e il gettone, ma può trattare così chi non la pensa come lui? Come fosse gente del paleolitico? Comunque ho provato con il mio iPhone, il gettone non entra...».
Renzi è stato chiaro: chi vuole, può andarsene.
«Più mi spingono, più mi accanisco a stare dentro... Battute a parte, è difficile restare perché Renzi stressa sempre di più la situazione. E però per la prima volta esorcizza la paura che l’unità non regga. Perché sa, a sinistra lo spazio è grande...».
Scusi Civati, ma lei quando decide se lasciare il Pd?
«Vedo se è possibile discutere di Sblocca Italia, articolo 18 e legge di stabilità, altrimenti... Insomma, non mi sono candidato al martirio. Per capirci, fiducia o meno io il Jobs act e lo Sblocca Italia, così come sono, non li voto».
Si muoverà assieme al resto della minoranza dem?
«Guardi, è il momento delle scelte. Io l’ho già fatta. Non mi permetto di dare giudizi, però si decidano. Chiedo loro un atteggiamento volitivo. Non possiamo andare in piazza e poi dire “stai sereno, la fiducia te la voto lo stesso”. In Francia trentuno socialisti non l’hanno votata e non sono stati cacciati dal partito ».
Ma esiste lo spazio per una forza rilevante alla sinistra di Renzi? Finora non è stato così.
«Senta, anche Rutelli andò nel 2002 al Circo Massimo dalla Cgil, invece sabato... Quella piazza non è più rappresentata. Magari non prenderemo il 41%, ma non è possibile perdere quel patrimonio».

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GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA -
«Io sono convinto che sia un bluff. Ma voglio andare a vedere». Con questo spirito Matteo Renzi ha sfidato l’altra sinistra: per verificare se esiste, se sa farsi partito. Nelle mosse della Cgil da tempo il premier vede una deriva politica e non solo sindacale. Come in quelle di Maurizio Landini, l’unico leader che il premier considera possibile per quell’area. E’ il momento di capire se hanno le basi per creare un soggetto alternativo al Pd. La mano di poker che si è giocata in questo week end ha previsto una doppia prova di forza: la piazza di sabato e le parole durissime della Leopolda sui reduci e la nostalgia. I rapporti sono sempre più logorati, nessuno ha più il timore di pronunciare la parola scissione. Ma non è finita fin quando non è finita. E non siamo ancora arrivati al traguardo. Che però è vicino. Il terreno di scontro decisivo è il Jobs Act in discussione alla Camera. Ossia il lavoro, il tema dei temi per capire se la sinistra cambia nel profondo, se si dà un nuovo profilo culturale.
Ai suoi collaboratori il premier ha detto che non vuole cambiare «nemmeno una virgola del Jobs Act a Montecitorio ». La piazza e le sue richieste verranno saltate a pie’ pari. «Credo che alla fine lo sciopero generale ci sarà, ma non mi fermo ». Perché crede nella riforma e non solo. Esiste un problema di tempi. «Dobbiamo approvarla in fretta. I decreti delegati sono già pronti e il primo gennaio del 2015 scatteranno gli incentivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. E’ una massa di denaro che non ho nessuna intenzione di tenere ferma, che va messa in circolo nell’economia ». La paura di Palazzo Chigi è che le opposizioni interne al Pd e fuori da quel perimetro puntino a guadagnare tempo, a organizzarsi con un po’ di calma e a dimostrare, dati alla mano, che l’azione del governo non porta a risultati concreti, tanto più sull’occupazione. Esattamente l’esito che Renzi vuole evitare a ogni costo. Da qui il desiderio di “vedere” il prima possibile quello che considera un bluff. Il conflitto va risolto subito.
Per questo ha usato tutta la sua forza dialettica dal palco della Leopolda. «Io non sono Grillo», ripete ai fedelissimi. «Io non caccio nessuno e non ho fatto il mio discorso per spingere Fassina e Civati fuori dal Pd. L’ho fatto però perché voglio togliere il potere di veto ai frenatori ». Renzi ricorda il periodo in cui lui era in minoranza. «Tanti dei nostri avevano degli strani pensieri. Dicevano: andiamocene. Matteo Richetti per esempio. Io ho sempre tenuto la barra dritta: non andiamo da nessuna parte». Adesso, è il senso, tocca agli altri rispettare le regole dentro il Pd. «Quindi figuriamoci se mando via qualcuno, anche se qualcuno non dovesse votare i provvedimenti alla Camera. Saranno sì e no una decina, non mi pare un problema».
E se la scissione alla fine si realizza? Il premier crede che i dissidenti non sappiano «dove andare ». Ma non esclude la possibilità. «Esco dalla Leopolda ancora più convinto che stiamo facendo le scelte giuste per l’Italia — dice ai collaboratori —. La gente mi dice “andate avanti” e chiede dei risultati. Vagli a spiegare che poi in Parlamento ci sono la Bindi e Gotor che impediscono il cambiamento e che dobbiamo fare i conti anche con loro». Le persone normali, è il ragionamento di Renzi, «non di- stinguono il nostro Pd dal Pd che si mette di traverso. Ed è naturale che sia così. Non stanno lì a pensare che in Parlamento il Partito democratico non è quello del 41 per cento ma quello del 25 per cento, datato febbraio 2013». Allora i passaggi chiave per capire se è fattibile un allineamento delle anime democratiche senza strappi, senza un nuovo partito a sinistra che Renzi non teme, sono tre e si deve fare chiarezza entro l’anno: la legge di stabilità, la riforma elettorale e il Jobs Act. Su queste scadenze si gioca il futuro del Pd e probabilmente della legislatura.
Naturalmente, la minoranza scava la trincea. «Non faremo il regalo della scissione a Renzi», afferma Alfredo D’Attorre. Ma Stefano Fassina la evoca chiaramente in un’intervista all’Huffington Post, regalo o non regalo. Si è capito che ieri mattina la rottura ha avuto un’accelerazione, che Renzi sta forzando il momento delle scelte. La piazza San Giovanni dimostra anche che «l’atomo da scindere è piuttosto grosso», dice Pippo Civati in risposta alle polemiche alimentate dalla Serracchiani. Insomma, non mancano le condizioni per decidere se l’Italia può avere due sinistre o una sola.

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ILVO DIAMANTI, LA REPUBBLICA
MATTEO Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi.
NON è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale “partito” guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un “ripartito”. Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d’ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il “suo” partito guarda avanti. E, per questo, non ha un “popolo” specifico di riferimento. Ma sa “contro” chi muovere. Anche perché i suoi “nemici”, per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come “nemici” contro cui mobilitarsi. I “nemici” di Renzi sono quelli che hanno sfilato a Roma, contro il Jobs act, contro le politiche sul lavoro del governo. “Convocati” dalla Cgil. E, non a caso, “contro” di loro e ciò che rappresentano si è rivolto Matteo Renzi, nel suo intervento conclusivo alla Leopolda. Li ha “etichettati”, politicamente, come nostalgici di un passato che è passato. E ha accostato — per molti versi, assimilato — la manifestazione della Cgil all’iniziativa delle sinistre arcobaleno. Il PdR, invece, guarda altrove. E, per questo, insiste sull’articolo 18. Simbolo del passato. Bandiera del Pd e della sinistra con la quale Renzi intende tagliare i ponti. Perché «è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2014». Così la questione, sollevata da Renzi, è «capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro». Un’alternativa, ovviamente, retorica. Perché, come scandisce Renzi «non permetteremo a nessuno di far tornare il Pd al 25%». Il PdR, per questo, si definisce “in opposizione all’opposizione”. Ai “nemici”, che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli “altri”. Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha “convocati” alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e “contro” coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E “contro” la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende “concertare”. Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.
Il primo riguarda l’identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l’ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all’innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di “un certo ceto intellettuale” (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.
In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono moltamoltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.
Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia “abolito” il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la “ditta”. In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi “nonostante” il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd “nonostante” Renzi.
Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un “antipartito”, raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del “nuovo” ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.

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MARCO CONTI, IL MESSAGGERO -
La prende alla larga. Parla prima di Isis, di Europa, di Ucraina e solo a metà dell’ora di intervento che chiude la quinta edizione della Leopolda, avvicina la mira agli avversari interni. A quella minoranza Pd che il giorno prima è andata in piazza con la Cgil e che sfida apertamente dopo aver difeso il Jobs act: «Li rispetto ma non ho paura che a sinistra si crei qualcosa di diverso. Poi si sta a vedere se essere di sinistra vuol dire stare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare». La platea si scatena in applausi e piedi battuti in terra. Renzi dà su la voce: «Non consentiremo a chi ha detto che la Leopolda è imbarazzante di riprendersi il Pd e trasformarlo per portarlo dal 41 al 25 per cento».
Lo scontro tra l’ala politica di piazza San Giovanni e la Leopolda è totale e Rosy Bindi, che ha definito «imbarazzante» la convention fiorentina, si trasforma nell’icona del vecchio, rappresentante di coloro che da «25 anni sono in Parlamento» e difendono la formula identitaria di un partito destinato sempre alla sconfitta e che per vent’anni ha lasciato spazio alla destra berlusconiana. Renzi li sfida definendoli coloro che cercano di mettere «il gettone nell’iphone»: «Non consentiremo che il Pd sia trasformato nel partito dei reduci. Noi saremo il partito dei pionieri, non quelli del museo delle cere, ma del futuro e del domani».
I COLPI

Appesantita da plurime legislature, la sinistra del partito vacilla sotto i colpi del Rottamatore che si diverte a provocarla irridendo gli intellettuali di sinistra che paragona ad una «convention di pensionati» che «quando si apre un cantiere si raduna ai lati e scuote la testa». I gufi, tanti, come tanti sono per Renzi coloro che non aspettano altro di vederci scivolare. «Perché dovrebbero riuscire loro dove noi abbiamo fallito?». Menagrami di complemento che abbondano nella politica, ma anche tra i tecnici che dice di aver incontrato a Bruxelles e che «pensano di fare carriera parlando male dell’Italia». I Consigli europei li definisce «una fatica» e rivela di aver dovuto ricordare alla Merkel di «aver preso più voti di te». «Chiedo rispetto» perché «con oltre undici milioni di voti è come se fossi il nono paese dell’Unione».
Nella visione di sinistra che il premier illustra alla platea in delirio, c’è molto spazio per i giovani senza tutele e garanzie che «non hanno l’articolo 18». «Non c’è più il posto fisso ma non perché l’abbiamo scelto noi - ricorda il premier - ma perché è cambiato il mondo. Non c’è più il modello fordista, la monogamia aziendale è in crisi nel mondo. E cosa fa un partito di sinistra? Fa un dibattito ideologico sulla coperta di Linus? O crea le condizioni perché chi perde il posto di lavoro sia preso in cura dallo Stato?». L’ovazione sommerge le ultime parole che riassumono il tentativo di costruire una sinistra che tenga dentro tutti, non solo i garantiti, ma i giovani con la partita iva e con contratti a tempo determinato. Per Renzi «l’articolo 18 significa chiamare un giudice dentro un’azienda a sindacare i motivi per cui si licenzia, significa dare lavoro ai giudici e agli avvocati ma non a chi perde il posto».
Al milione in piazza San Giovanni offre ragionamenti, mentre il guanto di sfida va alla sinistra Pd che pensa di usare quella piazza per fermare il governo. Un braccio di ferro destinato a sfociare in un nuovo voto di fiducia perché «noi non siamo al governo per scaldare la seggiola» e «la bicicletta ce la siamo presa». Verso la fine l’ultima stoccata alla minoranza Dem. Il premier non solo ringrazia il presidente della Repubblica definendolo «esempio di bella politica, l’Italia per bene è con lui», ma invita la platea alla standing ovation e di fatto se ne appropria nella battaglia contro l’austerity e i gufi.


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MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO -
«Una persona di sinistra non è mai un reduce». Ecco il manifesto renziano di liberazione da tutti i luoghi comuni della sinistra d’antan. Ci hanno provato in tanti, dentro la sinistra di sempre, a demolire il passatismo, il conservatorismo, il «massimalismo infantile» (copyright Giorgio Amendola), il reducismo di quella cultura e di quella parte politica. E a combattere - si pensi appunto ad Amendola contro Pietro Ingrao o molto più a tardi a Walter Veltroni contro la sinistra radicale alla Bertinotti spianata nel 2008 in nome della «vocazione maggioritaria» del Pd - il narcisismo dell’irriducibilità al buon senso e al senso di realtà che adesso Renzi, e lo ha gridato ieri dalla Leopolda, vede incarnati nella piazza della Cgil. Nel revanchismo della sinistra del Pd contro di lui. Nei venti di scissione in casa democrat. Nella «nostalgia da museo delle cere», che il premier-segretario vede assai diffusa e che stigmatizza con un’immagine che ha la forza icastica di una vignetta di Altan. «Restare aggrappati a un totem ideologico come l’articolo 18 - è l’affondo di Renzi a cui forse avranno fatto leggere o rileggere certe vecchie intemerate anti-conservatrici non solo di Amendola ma magari anche di Giorgio Napolitano che lui tanto ha citato ieri - è assurdo e bizzarro quanto voler infilare un gettone telefonico nell’iPhone o far suonare un cd su un giradischi o tentare di mettere un vecchio rullino in una macchina fotografica digitale».
IL DEMOLITORE
In una battuta, Renzi demolisce una tradizione eterna della cultura progressista ma regressista, che si culla nel culto dei valori perduti e nel fastidio verso lo sguardo in avanti, in questo caso il suo, bollato dagli altri come «destra». Questo nocciolo duro del contrattacco del premier contro gufi e paleo-antagonisti è comprensivo del ribaltamento dell’ossessione tipica del “pas d’ennemi a gauche” in «non ho paura che si crei a sinistra qualcosa di nuovo». E il leader del Pd dice di non avere questa paura anche perché Maurizio Landini, con cui si sente di continuo, gli ha assicurato che non si vuole mettere alla guida di nessuna nuova resistenza politica anti-Matteo. Il quale è convinto che il campo della sinistra non può essere il passato. E qui siamo un po’, tra le infinite differenze e se vogliamo giocare con la storia, allo stesso derby che Palmiro Togliatti combatté contro Pietro Secchia, l’eterno reduce della “Resistenza tradita”. O alle infinite polemiche, ma in questo caso la rottura è più netta e coraggiosa, che D’Alema nelle sue stagioni migliori (opposto a Cofferati quando era leader della Cgil) ingaggiò nei confronti della «sinistra parolaia e suicida» il cui «radicalismo è sinonimo di minoritarismo e di separazione rispetto al Paese».
LA PARTITA
Su questa linea, che è quella della sinistra che deve ricongiungersi al Paese e il 41 per cento non è che l’inizio, Renzi attacca a testa bassa quel «ceto intellettuale italiano» chiuso dentro la propria torre d’avorio ideologica o vetero-sindacale e che «ha paura appena qualcuno fa qualcosa e se vede un cantiere che si apre in qualche città scuote la testa diffidando: tanto non lo finiranno mai». Questo manifesto della sinistra da “unfinished revolution” (da rivoluzione infinita, per usare il titolo di un classico del pensiero blairiano, firmato a suo tempo da Philip Gould, e cioè una sinistra che non contempla la propria immagine nello specchietto retrovisore) lo riassume così Francesco Clementi, costituzionalista Renziano della prima ora, seduto a metà sala nella Leopolda: «È come nel rugby. Per Renzi l’obiettivo è la meta e non semplicemente il gol. Si avanza tutti insieme passandosi la palla all’indietro per portarla in avanti». Questa sinistra alla Matteo guarda a chi sta indietro - «prendersi cura dei più deboli» - per mirare al futuro. L’opposto dell’idea della nostalgia. Quella che vuole il passato sempre migliore: il cinema del passato (guarda caso uno dei testimonial della piazza della Cgil di sabato è stato il regista Citto Maselli), le parole del passato, i colori del passato, le manifestazioni del passato. E anche le nevrosi del passato. Una delle cose che Amendola meno condivideva della tradizione bigotta della sinistra era il manipolare la storia a scopi propagandistici. Ed è proprio questa l’accusa che Renzi ha lanciato in queste ore: «A sinistra, nel 2014, ci si aggrappa a una norma degli anni ’70 che allora la sinistra neppure votò». Il culto della memoria immobile e deformata diventa così un alibi, per la sinistra delle bandiere rosse stigmatizzata dalla sinistra delle camicie bianche, per deresponsabilizzarsi sul presente e per uccidere il futuro. Nostalgia canaglia.
Mario Ajello

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JACOPO IACOBONI, LA STAMPA -
Qualcuno dice elegantemente Big Tent - la grande tenda alla Tony Blair - qualcun altro Arca di Noè, Andrea Romano cita Jovanotti, «sogno una grande chiesa, da Che Guevara a Madre Teresa», Renzi dice «siamo quelli delle porte aperte, non quelli che ti cacciano fuori», comunque sia una circostanza clamorosa al Cibali c’è: un centrosinistra che si espande. Fino al rischio dell’ossimoro.
A produrre un effetto del genere possono concorrere molte motivazioni, più sottili della banale corsa sul carro del vincitore o del bisogno del tepore di un potente, per esempio la volontà di fare battaglie culturali «da dentro», la voglia di incidere, spostare il baricentro di Renzi nei limiti del possibile, o il semplice orrore del naufragio, la paura di sentirsi escluso. Fatto sta che nel partito a vocazione maggioritaria chiamato Leopolda-2014 c’è posto per tutti. Se il leader del Labour aveva, a riflettere sull’evoluzione del concetto di sinistra, Anthony Giddens e Peter Mandelson, qui c’è pur sempre Gennaro Migliore: «Qualcuno pensa che la sinistra sia il ragù della mamma». È domenica, e in effetti l’ora di pranzo si avvicina.
Migliore sta indirettamente rispondendo a Nichi Vendola che gli ha dato del «cortigiano» e vede nella Leopolda «una moglie per il Gattopardo». E così escogita la storia del ragù - citazione di Eduardo De Filippo -, critica a chi si affida solo a rassicuranti certezze. La cosa più bella che ha trovato qui, sostiene, è «la parola benvenuto».
Poi certo, è tutto un altro discorso vedere se ci sia spazio reale per le idee da cui lui proviene. Frasi come «il diritto di sciopero non è un diritto qualunque, è il primo dei diritti», che Migliore pronuncia non senza qualche emozione, fanno registrare uno degli applausi più tiepidi e rituali di tutta la Leopolda di quest’anno. Qualcosa che verrà potentemente travolto dal Renzi de «il posto fisso non esiste più». Altre espressioni sono invece molto in sintonia con la platea, per esempio la proposta di Andrea Romano, anche lui nuovo iscritto al Pd, reduce dall’esperienza di Italiafutura e poi di Scelta civica con Monti, del «partito della nazione»: «Siamo una nazione adulta, che ha contribuito a fondare l’Unione europea, non dobbiamo avere remore a difendere l’interesse nazionale. La nazione siamo noi. Quelli che sono qui e quelli che sono fuori da qui». Il patriottismo non è conservatorismo, diceva Orwell. Il cui vero nome era, appunto, Blair.
Pazienza se un «partito» della Nazione può sembrare contraddizione in termini, il sincretismo di Renzi se ne frega serenamente. Attrae opposti. Sabato il prosaico Davide Serra, ieri il poetico astronauta Luca Parmitano, che ha proiettato in sala la foto dell’Italia scattata dallo spazio, con questo commento: «I confini li abbiamo inventati noi, vedete? Dall’alto non ci sono, i confini sono interiori, sono quelli che dobbiamo superare».
Sicuramente uno come il giovane Matteo Cuscela accede all’Arca perché - come dice dal palco - crede che «la mia generazione è quella che, né più né meno, cambierà il mondo». Ma a pochi metri c’è anche Fabrizio Landi, finanziatore della Fondazione Open, poi nominato nel cda di Finmeccanica, un corpaccione che alle parole del giovine sogghigna scettico, appoggiato a una colonna.
Renzi, pure in un discorso in cui è andato dritto come un treno sulla Cgil e gli oppositori interni al Pd, ha usato l’aggettivo «affettuoso» per descrivere l’atteggiamento che c’è qui. Il che, unito all’ineffabilità del potere, magnetizza persone diverse, Raffaele Cantone («la corruzione ci ruba il futuro») e lo sceneggiatore di Gomorra Stefano Pises, Patrizio Bertelli di Prada e il capo dell’Agenzia per le entrate Rossella Orlandi che, con qualche conflitto, chiama «Matteo» il premier. Da Madre Teresa a Che Guevara c’è spazio per tutti e un caffè caldo per il sindaco di Roma Ignazio Marino, ormai più renziano di Renzi: «Ha fatto un discorso che è il futuro».

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FRANCESCA SCHIANCHI, LA STAMPA -
Il Pd in piazza con la Cgil e quello della Leopolda «sono lo stesso partito. Non drammatizziamo la divisione di sabato», predica il presidente dell’Assemblea del Pd, Matteo Orfini, appena rientrato da un bilaterale in Cina con i dirigenti comunisti. Che però aggiunge: «Abbassiamo i toni».
Si riferisce allo scambio tra Bindi e Renzi?
«Penso che la Bindi abbia usato argomenti non convenzionali e irricevibili. Non sono mai stato alla Leopolda ma definirla “post Pd” e alludere al fatto che chi governa possa essere influenzato dai finanziatori della Leopolda non le fa onore».
E Renzi che definisce «reduci» la vecchia classe dirigente?
«Dovremmo smetterla di usare il “noi” e “voi”: la contrapposizione interna alimentata per ragioni di visibilità rischia di distruggerlo un partito».
È quello di cui si discute: è normale sfilare in un corteo che intona cori contro il segretario?
«Io ero in Cina ma non sarei andato alla manifestazione della Cgil. E per uno con la mia storia, non andarci non è una scelta facile. Ma non si può usare quella piazza come una passerella: c’è un’enorme dose di strumentalità da parte degli esponenti del Pd che ci sono andati. Ciò detto, non credo che quella piazza sia alternativa a quello che fa il governo».
Nemmeno sull’articolo 18?
«Anch’io non avrei cambiato l’art. 18, e ho accettato la correzione solo perché è parte di un provvedimento che va nella direzione dell’ampliamento dei diritti dei lavoratori. Trovo sbagliata anche la definizione di Renzi del gettone da mettere nell’iPhone, perché i diritti non scadono e il tema è estenderli. Ma non accetto che si faccia passare la politica del governo in continuità con quella della destra. Lo scontro aperto in Europa sulla legge di stabilità dimostra la discontinuità».
Fassina dice che il Jobs act così com’è non lo vota.
«Mi stupisce che Fassina non abbia ritenuto in contrasto col suo mandato da parlamentare votare la fiducia a un governo con Berlusconi o fare servizi fotografici posati insieme a Brunetta inneggiando alle larghe intese…».
Che succede se nella minoranza non votano il jobs act?
«Dobbiamo discutere nei gruppi parlamentari il modello del nostro stare insieme. Io penso che si debbano rispettare le decisioni prese a maggioranza».
Chi non lo fa è fuori dal Pd?
«Non dobbiamo mettere fuori nessuno, ma se ci sono scelte difficili da fare non può essere che una parte si carica le responsabilità e l’altra si mette in posa davanti alle telecamere».
Il rischio scissione è reale?
«Il semplice fatto che se ne parli così di frequente significa che il rischio c’è. Per questo dobbiamo evitare discussioni strumentali e cercare di recuperare il senso di comunità che stiamo perdendo».
L’obiettivo è il partito della nazione?
«Dobbiamo allargare il Pd, ma non lo chiamerei partito della nazione. Siamo il Pd, che sta nel Pse, questi sono i nostri confini: se vieni nel Pd lo fai per fare una battaglia di sinistra. E non per ridurre il diritto di sciopero».
Lo ha proposto Serra, che si iscrive al Pd.
«Se pensa quello che ha detto, forse ha sbagliato partito».
La Leopolda è un partito parallelo, come teme Cuperlo?
«No: in tutte le democrazie la politica si fa anche nelle fondazioni e nelle associazioni. Credo che Cuperlo, come me, consideri una palestra formativa importante il lavoro fatto ad Italianieuropei (la fondazione presieduta da D’Alema, ndr.)».
Se non fosse stato in Cina ci sarebbe andato alla Leopolda?
«Credo di no. Sa, sono un po’ vintage: faccio fatica a parlare solo 5 minuti…».