Romano Prodi, Il Messaggero 26/10/2014, 26 ottobre 2014
UNA STRATEGIA PER BATTERE LA BUROCRAZIA DI BRUXELLES
Il vertice europeo di Bruxelles è stato l’ultimo vertice dei dieci anni della commissione Barroso. Esso si è concluso come quasi tutti gli altri: un faticoso compromesso capace di salvare la vita dell’Unione ma nessuna prospettiva di lungo periodo per un rilancio del ruolo politico ed economico dell’Europa. Come in tutti i vertici precedenti i leader dei vari Paesi sono ovviamente tornati in patria sottolineando i vantaggi domestici dei compromessi raggiunti e delle loro positive conseguenze sulla politica e sull’economia nazionale.
Questa pur semplificata sintesi si applica perfettamente a quanto ha ottenuto l’Italia, cioè un compromesso che non mette a rischio la struttura della legge finanziaria preparata dal nostro governo ma che non costituisce certo una seria svolta in direzione di una nuova politica di crescita. Un compromesso perché l’Italia si era accordata, nello scorso aprile, per una riduzione del deficit dell’ordine dello 0,5% del Pil ma, in conseguenza del cattivo andamento dell’economia e dell’urgente necessità di rilancio, ha portato al vertice di Bruxelles una proposta per una più modesta riduzione, pari allo 0,1% del Pil. La correzione concordata a Bruxelles si mette proprio a metà strada ed il compromesso sta in una riduzione del deficit dello 0,3%. Dato che ogni punto di Pil equivale a 1,6 miliardi di euro dovremo quindi trovare 3,2 miliardi. Non è una tragedia perché una somma di questa misura era stata saggiamente tenuta in riserva, anche se con l’improbabile nome di “tesoretto”.
La legge finanziaria potrà quindi andare avanti secondo le sue linee, pur con 3,2 miliardi in meno da destinare alla crescita. Il compromesso era così scontato dai mercati finanziari che è stato accompagnato dalla immancabile dichiarazione di una delle tre società di “rating” che ha annunciato, per quello che conta, di mantenere immutato il voto e le prospettive dell’economia italiana. Nulla quindi di rivoluzionario nella sostanza: solo la speranza di un cambiamento della politica europea ma nessun passo concreto in favore di una nuova politica. Una situazione riassunta nelle amare parole di Mario Draghi che ci ha doverosamente ricordato che “la speranza non è una strategia”.
La continuità è quindi in un’assenza di strategia, nell’ambito della quale accadono tuttavia alcuni fatti nuovi. Il più evidente di questi è il percepito cambiamento della politica francese. Parigi conferma il suo deficit per il 2015 al livello del 4,3%, ben lontano da ogni richiesta della Commissione, ma si riallinea completamente con Berlino, appoggiando la Merkel nel ricalcolo dei vecchi conti dell’Unione, isolando così la posizione britannica ed italiana, paesi sfavoriti da questa strana e tardiva revisione dei conti.
La ricostituzione dell’asse Parigi-Berlino era già tracciata nel momento in cui, nel suo nuovo governo, Hollande aveva affidato la responsabilità delle Finanze e dell’Economia a due ministri molto più attenti alla politica tradizionale francese e aveva concordato col governo germanico la costituzione di un comitato comune per il coordinamento della politica degli investimenti. Tale tradizionale alleanza è stata tuttavia messa in maggiore evidenza quando Hollande ha tenuto a dichiarare che, contrariamente a quanto ha fatto l’Italia, il suo governo si rapportava con la Commissione in modo riservato, senza rendere pubblico il contenuto della lettera inviata a Parigi dalla Commissione stessa. Due mosse con un unico messaggio politico: la Francia, dopo un periodo di esitazione, sta ritornando alla sua tradizionale politica di riallineamento con la Germania, seppure in un rapporto di forza totalmente mutato.
Mutato anche perché, nel frattempo, si stanno nominando i nuovi vertici delle Istituzioni europee, che vedono un ulteriore rafforzamento dell’influenza tedesca non solo nelle cariche politiche delle Istituzioni ma anche nelle organizzazioni burocratiche. Direttori generali, capi di gabinetto e alti funzionari di obbedienza germanica si sono ulteriormente rafforzati. Questo anche in conseguenza dell’incomprensibile politica britannica che, avendo messo sul tavolo una possibile uscita del paese dall’Unione Europea tramite il proposto referendum popolare, sta progressivamente perdendo il grande potere che esercitava in passato a Bruxelles. La Gran Bretagna, inoltre, trova ogni giorno più difficile costruire le solide alleanze che la sua diplomazia era in grado di organizzare: molti dei tradizionali alleati sono infatti riluttanti a condividere le proprie battaglie con un paese che potrebbe uscire, in un giorno non lontano, dall’Unione Europea.
Il Presidente Renzi ha certamente ragione nel sottolineare con accento negativo l’eccessivo potere della burocrazia di Bruxelles e a ribadire con vigore la necessità che la politica si riappropri del suo ruolo ed eserciti in modo nuovo il mandato che le viene dal popolo. Tuttavia, nell’Unione Europea come in ogni altra istituzione, il potere si traduce in azione tramite le solide alleanze e l’uso della burocrazia. Forse a Bruxelles, data la lontananza dei governi e l’indebolimento della Commissione, il ruolo della burocrazia si è molto allargato. A questa anomalia si deve certo porre rimedio ma non con i lamenti. Il rimedio è in una strategia volta a costruire un maggior equilibrio tra i burocrati dei diversi paesi e, soprattutto, nel proporre politiche innovative capaci di mobilitare le forze popolari che l’assenza di politica sta invece orientando verso i movimenti populisti e antieuropei.
Fra pochissimi giorni la Commissione Juncker comincerà i suoi lavori. Essa ha il potere di proporre nuovi obiettivi all’Unione e, data la situazione di drammatica paralisi in cui ci troviamo, ha anche la possibilità di dare nuova forza alle proprie proposte. Auguriamoci che essa abbia il coraggio di fare il proprio dovere perché l’Europa non può sopravvivere ad una crisi dalla quale non si può certo uscire ricercando solo compro
Romano Prodi, Il Messaggero 26/10/2014