Ugo Bertone, Libero 25/10/2014, 25 ottobre 2014
LA CASSAZIONE TOGLIE A
D&G L’ABITO DA EVASORI –
Assolti «perché il fatto non sussiste». Così la Corte di Cassazione ha smantellato la sentenza di condanna ad un anno e sei mesi per omessa dichiarazione dei redditi inflitta il 30 aprile scorso dalla Corte d’Appello di Milano agli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana. Un verdetto che annulla «una condanna contro il buon senso», così definita a suo tempo non dal difensore di D&G, l’avvocato Massimo Dinoia, ma dal sostituto procuratore generale di Milano Gaetano Santamaria che nell’arringa conclusiva del processo penale aveva chiesto l’assoluzione. Ma il collegio milanese non aveva evidentemente rinunciare alla tentazione di comminare una punizione esemplare a due impenitenti «evasori fiscali», come li aveva definiti l’assessore comunale al Commercio della giunta Pisapia, Franco D’Alfonso annunciando (non richiesto) di non voler concedere ai due stilisti né Duomo né Castello Sforzesco per le sfilate. Il presidente del Consiglio Comunale, Basilio Rizzo si era spinto più in là, chiedendo di revocare l’Ambrogino d’Oro, concesso loro a suo tempo da Letizia Moratti. Il tutto, naturalmente, sulla base di una sola sentenza, quella di primo grado (16 mesi di condanna), che pure rappresentava un solo capitolo dell’odissea giudiziaria, a suo modo esemplare delle dinamiche della giustizia nostrana: D&G sono stati prima assolti nell’aprile 2011 dal Gup di Milano, ma la Cassazione, nel novembre successivo, aveva annullato la decisione e rinviato gli atti a Milano. Il 19 giugno 2013, i giudici milanesi avevano condannato Dolce e Gabbana a un anno e otto mesi per omessa dichiarazione dei redditi, condanna poi confermata in appello nonostante il parere opposto della procura generale. Infine, il verdetto di ieri della Suprema Corte che, finalmente, chiude la vicenda. Insomma, una storia esemplare, sia per gli aspetti giudiziari che per la smania giustizialista che caratterizza i garantisti a senso unico, capaci di far saltare i nervi alla coppia del made in Italy (che ha comunque subito un grave danno di immagine) che, per protesta, chiuse i negozi milanesi per tre giorni. Eppure la materia, ostica, meritava un esame più sereno (e competente). I due stilisti, infatti, erano accusati d’aver costituito una società in Lussemburgo, la Gado, solo per evadere il fisco italiano. In realtà, la scelta effettuata nel 2005 quando il gruppo era in piena espansione, era legata all’obiettivo dell’approdo in Borsa che imponeva di spostare la proprietà dei marchi (fino a quel momento nelle mani dei due stilisti) all’interno della società. Per questa esigenza, l’ordinamento del Lussemburgo offre numerosi benefici fiscali, peraltro legittimi. «L’ottimizzazione del regime impositivo è lecita», aveva detto in aula il dottor Santamaria aggiungendo che «come cittadino italiano potrei essere indispettito dalla scelta di vendere i marchi ad una società lussemburghese ma come operatore di diritto devo spogliarmi di ogni pregiudizio». Un comportamento "normale" che dalle nostre parti fa notizia. Ora l’assoluzione finale. E la fine di un incubo che ha coinvolto anche gli altri imputati, assolti ieri con formula piena: il commercialista Luciano Patelli (condannato in appello ad un anno e sei mesi), e i manager Cristiana Ruella e Giuseppe Minoni (per i quali in secondo grado era stata emessa sentenza di condanna pari ad un anno e due mesi). Prescritto invece il reato dell’omesso versamento per il 2005 contestato ad Alfonso Dolce, fratello di Domenico. Nei suoi confronti ha però disposto un processo di appello bis sulle "imputazioni residue" nonostante che, in questo caso, la prescrizione, maturerà il prossimo primo novembre. Il tempo giusto per ingolfare i tribunali di nuove carte inutili.
Ugo Bertone, Libero 25/10/2014