Filippo Facci, Libero 25/10/2014, 25 ottobre 2014
COME SOFFRONO INGROIA E TRAVAGLIO PER LA LORO ICONA ROTOLATA NEL FANGO
Fai ribrezzo tu: sarebbe l’unica risposta che meriterebbe quel Marco Travaglio che, ieri, ha sentenziato che «l’informazione italiana fa ribrezzo» solo perché, il giorno prima, la stessa stampa gli aveva ricordato le sue ultime figure di melma (dopo quelle di fango) a margine del caso Ciancimino, il pataccaro “icona dell’antimafia” che lui e Antonio Ingroia per anni hanno osannato come l’oracolo che non era. Numero da collezione, quello del Fatto Quotidiano di ieri: Travaglio nel suo editoriale si chiamava fuori e divagava con ordinaria omissione, poi affianco c’era un box col titolo «Travaglio giornalista di razza» attribuito a Santoro (molto elegante) e, ancora affianco. ecco «le domande che vorrei fare a Napolitano» firmato Antonio Ingroia, con infine, sopra la testata, una battuta contro il Papa che l’altro giorno si è permesso di scomunicare un totem del Fatto Quotidiano: la carcerazione preventiva. Ciancimino e Travaglio e Ingroia: tre ex alleati nel promuovere la notoria patacca della “trattativa” e tre mestieranti che non si sa più bene che mestiere facciano: da chi cominciare? Da Travaglio, of course. Solo qualche sciocchezza, perché lo spazio è poco. Anzitutto Travaglio ricorda che il primo a intervistare Ciancimino fu Panorama di Maurizio Belpietro (ecco, l’abbiamo citato) come se Travaglio non cogliesse la differenza tra dare una notizia e montare una campagna: è la stessa differenza che c’è tra registrare un’asserzione e crederci. Che fosse una notizia non c’è dubbio, visto che la magistratura (Ingroia) ha dovuto e voluto occuparsene: ma Travaglio ne parla quasi come di un amaro calice che Ingroia dovette bersi, non parla dell’entusiasmo di Ingroia quando scrisse che «dal primo incontro ho capito subito che Ciancimino era di tutt’altra pasta...oggi è arrivato a diventare quasi un’icona dell’antimafia». Ingroia che ebbe soprattutto l’ideona, partendo dalle sole dichiarazioni di Ciancimino, di imbastire tutto il mostruoso processo sulla trattativa: per sostenere che «l’attuale equilibrio politico e istituzionale è fondato sulle stragi del 1992». Nota: l’affidabile Ciancimino è pregiudicato perché condannato per riciclaggio del tesoro illecito del padre mafioso (appartamenti, yacht di lusso, Ferrari, conti in Svizzera. 60 milioni di euro confiscati) ma ha evitato il carcere proprio perché nel frattempo aveva cominciato a collaborare con la magistratura; poi ha una condanna in primo grado per possesso di esplosivi e infine è sotto processo per associazione mafiosa e calunnia (il falso documento contro l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro) e poi c’è un’altra indagine per un riciclaggio in Romania. Ma Travaglio - che notoriamente non ha mai badato a queste cose - difende Ciancimino e parla ancor oggi dei documenti che Ciancimino consegnò ai magistrati: «55 documenti del padre che la Scientifica perizierà come originali autentici o fotocopie non manipolate». Come a dire: vedete? Ciancimino è stato comunque utile, ci sono i documenti. Travaglio in passato scrisse che i documenti erano addirittura 150: tanto nessun suo lettore va a controllare. In ogni caso è una balla: pochissimi documenti sono stati “autenticati” dai periti, benché manchi la prova che siano stati costruiti ad arte come quelli su De Gennaro. Di essi: 1) quindici sono privi di valore giudiziario; 2) tre sono solo ritagli di documenti originali, di dubbia origine secondo i periti; 3) due sono dei fotomontaggi in photoshop; 4) tre sono di grafia ignota; 5) uno è sfalsato nel rapporto tra scrittura e data della carta utilizzata; 6) uno è una fotocopia-fotomontaggio; 7) Uno è una fotocopia non autenticata dai periti; 8) sette sono i famosi pizzini scritti a macchina da autore rimasto sconosciuto, scritti con la stessa carta del “contropapello” non autenticato pur’esso; 9) uno è quello che cercava d’inguaiare De Gennaro e per cui Ciancimino è finito in galera. Di tutto il resto non ci occupiamo, non ora: manca lo spazio e in ogni caso atterrebbe soltanto all’orgoglio e alla scarsa memoria di Travaglio, che ieri ha pure scritto che «a parte Annozero, nessuno ha mai conteso o invitato Ciancimino» che è un’altra balla, o una scarsa considerazione per svariati colleghi di Michele Santoro: a cominciare da Gad Lerner, che Ciancimino l’invitò eccome. Poi ecco, ci sono «le domande che vorrei fare a Napolitano»: firmato Antonio Ingroia. Domande che lui non può fare perché non è più pm, certo. Ma domande che non avrebbe potuto fare comunque - precisa lui stesso - perché sarebbero giudicate inammissibili. In effetti - è un grave difetto del diritto - esistono delle regole, ma «con le regole fissate è difficile arrivare a qualcosa», disdetta. Comunque le domande di Ingroia, da noi sintetizzate, sarebbero queste qui: 1) perché, quando l’indagato Nicola Mancino la cercò direttamente o indirettamente, lei non si astenne dal rispondergli? Perché, anzi, gli disse che si sarebbe interessato alla sua vicenda, verificando l’effettiva competenza palermitana sull’indagine sulla trattativa?; 2) lo fece perché era suo amico, o per una qualche ragion di Stato? Se sì, quale?; 3) perché non si precipitò ad avvertire i pm palermitani dei tentativi di Mancino di contattarla?; 4) perché, se quelle telefonate con Mancino a suo dire erano normalissime, dunque non le ha rese note?; 5) il conflitto di attribuzione da lei sollevato alla Consulta contro la procura di Palermo, a suo dire, non ha ostacolato la ricerca della verità?; 6) perché non ha mai espresso solidarietà ai magistrati del “pool trattativa” minacciati dalla mafia? A domande immaginarie, e senza regole, seguono risposte immaginarie - nostre - e senza regole: 1) Risposi a Mancino, ex presidente del Senato, perché non vidi ragioni di non farlo; io agli indagati rivolgo la parola; 2) Delle mie amicizie non parlo con lei, e figurarsi della ragion di Stato; 3) Figurarsi se devo precipitarmi a telefonare a una procura solo perché ho parlato al telefono con un indagato mio amico; 4) Non ho reso note le telefonate perché la legge lo impedisce, avete presente?; 5) il conflitto di attribuzione non ha nulla a che vedere con la ricerca della verità: un po’ come l’indagine sulla trattativa; 6) non ho espresso solidarietà ai magistrati della “trattativa” perché non c’è nessuna prova che siano stati minacciati seriamente dalla mafia, a differenza di altri loro colleghi palermitani che si occupano di mafia per davvero. E uno può dire che, come risposte, valgano poco: ma perché, le domande?
Filippo Facci, Libero 25/10/2014