Bruno Arpaia la Repubblica 25/10/2014, 25 ottobre 2014
L’INCOMPRENSIBILE SCOMPARSA DELLO SCRITTORE MEDIO
Uno spettro sempre più smorto si aggira per le librerie e i bookstore online: quello dello “scrittore di classe media”, dell’autore che fino a qualche anno fa vendeva, diciamo, fra le settemila e le trentamila copie e che oggi fatica a piazzarne la metà; dell’autore che, grazie a quelle vendite, perfino in un mercato asfittico come quello italiano, si era almeno “semi-professionalizzato” e riusciva a dedicare gran parte del proprio tempo alla scrittura.
Prima della Grande Crisi di questi anni, infatti, gli scrittori che rientravano in quella fascia erano numerosi e rappresentavano la spina dorsale della produzione e la maggior parte degli introiti delle case editrici. Bei tempi andati. Oggi si stanno riducendo al lumicino, sempre più impoveriti, in un processo che appare parallelo a quello in atto nella società, dove, a partire dagli anni Ottanta, la distribuzione della ricchezza è andata polarizzandosi, inducendo sociologi ed economisti a parlare di una «scomparsa della classe media ».
Una recente indagine in Gran Bretagna, svolta dalla Queen Mary University per conto della Author’s Licensing and Collecting Society, ha stimato che solo l’11,5 per cento degli autori professionali riesce a vivere dei propri libri, mentre nel 2005 la percentuale era del 40 per cento. Oggi, inoltre, il compenso annuale medio degli scrittori è circa un quarto del minimo di 16 mila sterline fissato dalla Joseph Rowntree Foundation per una vita dignitosa. E tuttavia queste cifre, che la Società degli autori britannica definisce «scioccanti», sono quasi una chimera per altri mercati, notoriamente molto meno floridi di quello inglese.
Le ultime rilevazioni dell’Aie, presentate recentemente alla Fiera di Francoforte, parlano di un fatturato editoriale italiano che dal 2010 ha perso 572 milioni di euro, il 17,7 per cento del totale. Sono dati veri; ma sono anche dati che esprimono una media: come nella famosa storiella dei due polli mangiati da una sola persona, mentre i bestseller tengono, se non addirittura aumentano le vendite, a pagare più pesantemente il crollo della lettura sono proprio gli scrittori “medi”, che accusano perdite vicine al 50 per cento rispetto a pochi anni fa. Insomma, la crisi non colpisce tutti allo stesso modo. Per gli autori meno televisivi o popolari, dunque, gli anticipi calano vertiginosamente, oppure si trasformano in posticipi, oppure, semplicemente, scompaiono. E così lo scrittore di classe media, che ha impiegato anni a semi-professionalizzarsi, deve sottrarre sempre più tempo alla scrittura dei propri libri per dedicarsi, quando ci riesce, a tradurre, scrivere articoli, tenere conferenze. Attività a loro volta duramente colpite dalla crisi editoriale: le traduzioni di autori stranieri in Italia diminuiscono allo stesso ritmo dei compensi, già tra i più bassi in Europa; le difficoltà dei giornali riducono le parcelle delle collaborazioni, mentre le attività culturali delle istituzioni pubbliche, che una volta organizzavano incontri, festival o conferenze, hanno subito tagli che non hanno uguali tra i paesi dell’Ocse. Risultato: si scrive meno e, soprattutto, si scrive peggio.
«La mia generazione», ha scritto Ignacio Martínez de Pisón, un esempio di scrittore medio, premio Nacional de la Crítica in Spagna e autore di romanzi come Morte di un traduttore , Strade secondarie o Il fascista, «per venticinque anni ha potuto vivere dei propri libri, raccontando storie. Di colpo, la realtà è cambiata. La professionalizzazione che ci eravamo conquistati è scomparsa. Torneremo, se va bene, allo scrittore del fine settimana. Questa situazione provocherà disastri incomparabili, perché danneggerà la qualità dei libri». Alcuni autori, poi, gettano addirittura la spugna e rinunciano a scrivere: perché credono che non ne valga più la pena.
Ma quali sono le cause di questa drastica contrazione della lettura, o meglio: di un certo tipo di lettura? È chiaro: con i portafogli svuotati dalla crisi economica è più difficile acquistare libri, ma questa è solo una piccola parte del problema. Probabilmente sono in gioco trasformazioni più radicali e profonde, che non hanno a che fare con la falsa contrapposizione tra ebook e volumi cartacei. Il punto dolente è che le tecnologie digitali, i social network, il maremagno di Internet, cambiano le abitudini di lettura e perfino i livelli di attenzione e i modelli percettivi. Cambiamenti forse inevitabili, che sarebbe un errore demonizzare. Ma bisogna pur dire che tutte le recenti inchieste sulle capacità di comprensione dei testi da parte dei giovani, in Italia e all’estero, forniscono risultati sconfortanti. Qualche mese fa, lo scrittore inglese Will Self ha sostenuto che l’era digitale non soltanconvulsa o to spinge verso la scomparsa dei volumi fisici, ma sfida l’idea stessa di una lettura “difficile”. Editori e librai sembrano credergli, tanto da avere adottato una politica che punta quasi esclusivamente sulle novità, soprattutto quelle più “facili” e di largo consumo. Così la vita media di un libro “letterario”, che era già breve, si è ridotta a poche settimane sugli scaffali.
«Il problema», dice José Manuel Fajardo (autore di romanzi come Lettera dalla fine del mondo , Una bellezza Al di là dei mari), «è che alla maggior parte dei libri non viene dato il tempo di incontrare i propri lettori». Fajardo ha perciò deciso di pubblicare in proprio su Amazon i suoi romanzi: «Questa soluzione mi offre il controllo assoluto sul libro e mi dà una percentuale alta sugli introiti».
Non tutti, però, sono d’accordo con il self-publishing. Le recenti, durissime polemiche di migliaia di autori contro Amazon e i giganti della Rete sono lì a dimostrarlo. La prospettiva sembra essere quella di un mondo del libro estremamente polarizzato, con grandi bestseller che spadroneggiano al di sopra di un oceano di testi accessibili all’istante e quasi del tutto gratuiti, un oceano in cui i libri di qualità, di autori noti e riconosciuti, sono indistinguibili dai volumi di poesia messi in rete dal quindicenne con velleità creative. Una prospettiva poco allettante: per gli autori di fascia media, ma non solo.
«Questa», conclude Fajardo, «è una battaglia a morte per la letteratura. In termini biologici, si tratta di difendere la diversità dell’ecosistema letterario». In gioco, però, c’è anche qualcos’altro: forse, senza i romanzi o i saggi di qualità si potrà anche sopravvivere, ma senza la complessità narrativa ed espressiva contenuta nei libri è compromessa la possibilità stessa di un Paese di competere con gli altri nell’èra della conoscenza. In tempi in cui il fatturato dell’industria creativa raggiunge più o meno il cinque per cento del Pil e la conoscenza e la creatività costituiscono i veri motori di qualunque crescita economica, tagliare come un ramo secco il grande corpaccione degli scrittori di fascia media è quasi un delitto. Ne risentiremmo tutti, lettori e non lettori. Forse, per evitare di fare la fine dei dinosauri, i diversi protagonisti del mondo della lettura dovrebbero smettere di cercare semplicemente di tirare avanti l’un contro l’altro armati. Tenendosi alla larga da allarmismi apocalittici, dovrebbero riflettere per davvero su come raccontare storie che permettano anche al narratore di sopravvivere.