Francesco Merlo, la Repubblica 25/10/2014, 25 ottobre 2014
NEL BUNKER PATACCA DI MUSSOLINI
È LA Roma di cartapesta che ritorna sotto forma del bunker-patacca della famiglia Mussolini, una cantina sotto il lago di Villa Torlonia che oggi viene riaperta dal Comune e dalla Sovraintendenza con la stessa pompa magna di allora, la Cnn e Al Jazeera al posto dei carri armati di cartone. Dell’epoca rimangono lo scheletro di un ventilatore, la porta blindata, le piattine di legno che fissano al muro il fili elettrici e quel sapore di messinscena drammatizzata che Mussolini intuì non appena vide che avevano trasformato il lago in un acquitrino. Lo avevano insomma ”mimetizzato” con musco, fango e acqua per confondere i piloti degli aerei nemici, con il risultato di attirare le zanzare, allora portatrici di malaria.
Per anni, in quella cantina aveva respirato il vino cattivo del principe Torlonia, il famoso «fiele» dei cafoni di Silone, dentro le botti sistemate nelle celle laterali. Poi la cantina era stata abbandonata, deposito di cianfrusaglie e di roba vecchia, in disuso per chissà quanto tempo. Infine la blindarono (si fa per dire) nel 1940, con due porte di acciaio e un filtro antigas a manovella, per accontentare sbrigativamente il duce che aveva chiesto per la sua famiglia uno di quei rifugi «a prova di bomba» che impreziosivano l’Italia sottoterra dei gerarchi e dei patrizi, più status symbol che vera sicurezza.
Ebbene, ancora oggi si capisce subito la fragilità di questa stanza quadrata che rimane patacca anche nel florido mercato del feticismo storico. Vi si entra dal giardino di fronte al teatro che il Duce aveva adibito a cinema, «l’arma più forte dello Stato», e percorrendo un camminamento in discesa di circa venti metri sotto il lago, che riproduce la forma frastagliata di quello prosciugato del Fucino, si arriva appunto al rifugio di quasi ottanta metri quadri che nessuno si sarebbe permesso di chiamare con il nome albionico di bunker. E siamo già sotto il campo dei Tornei dove in braghe e canottiera il duce, allenandosi con il grande calciatore Eraldo Monzeglio, si era convertito al tennis che da «gioco per signorine inglesi» era diventato «un gioco magnifico per le camice nere».
Giù, l’ex cantina prendeva addirittura aria e luce da un pozzetto dentro al quale fu costruita, senza troppo senso, anche una scala a pioli di metallo. I vigili rivestirono il tutto con una piccola piramide di cemento armato che, fatta e rifatta, sta lì ancora adesso a testimoniare la bizzarria di questo rifugio-patacca nel quale, durante gli allarmi notturni, il duce e i suoi familiari neppure entravano. Aspettavano davanti all’ingresso il suono delle sirene che avvisava del cessato pericolo.
E però Mussolini non poteva accontentarsi di una cantina travestita da rifugio. Come Hitler, cercava il suo nido, il mondo fuori dal mondo, che è il sogno di tutti i potenti, l’impermeabile delle loro ossessioni, come il famoso cassetto destro della scrivania nella Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia dove teneva sotto chiave un fascio di biglietti di banca e una rivoltella carica.
Dunque arrabbiatissimo, il Duce chiese un vero rifugio. E questa volta i vigili del fuoco dedicarono quattro mesi di lavoro agli scantinati sotto il salone centrale della casa padronale che solo i familiari di Mussolini chiamavano “la Palazzina” e tutti gli altri “il Palazzo”, anticipando senza saperlo Pasolini.
Ieri pomeriggio vi siamo entrati. Non è un labirinto ma con tutti quei corridoi sembra una clinica o un ministero senza luce. E abbiamo finalmente sentito l’effetto bunker guardando il soffitto che fu rafforzato con centoventi centimetri di cemento armato. Avrebbe resistito, promisero al duce, anche a bombe di oltre una tonnellata. Già aperto al pubblico nel 2006, e subito richiuso chissà perché, è descritto in tutte le guide di Villa Torlonia ma oggi sarà di nuovo inaugurato insieme alla cantina-patacca dove la luce elettrica, che allora era a batteria, adesso arriva dall’edificio di fronte.
L’effetto è di nuovo rarefatto. Non la luce accecante di un rifugio, ma quella sfumata dei presepi. È stata riaperta anche la seconda uscita che fu scavata dalla parte opposta. Con meticolosità filologica, la Società Sotterranei di Roma di Lorenzo Grassi, un ex giornalista dell’ Adn Kronos che ha vinto l’appalto per il restauro, ha trovato pure un gabinetto, un telefono, e una brandina d’epoca. E davvero sembra una pulita scenografia da modesto teatrino di provincia, con le riproduzioni al posto degli originali. Con una speciale raffinatezza: qui siamo addirittura alla copia della copia visto che già l’originale era finto, un surrogato di bunker, come erano finti l’Impero e le parate militari, e com’era finta la serenità di quella famiglia-modello che nel pomeriggio si riuniva sotto la pianta di fico.
Mussolini, macho fascista, metteva in scena il piccolo mondo antico di Villa Torlonia in mezzo alla campagna romana. Solo qui “il duce” diventata “il presidente”, e donna Rachele fingeva di essere mamma e sposa felice. Persino Eraldo Pistoni, il figlio del custode, nel bel libro oggi introvabile Villa Torlonia e Mussolini finse di non sapere che quel focolare domestico era stato un inferno di tradimenti.
Da domani sarà possibile vistare tutti questi sotterranei fascisti di Villa Torlonia tranne quel budello che forse si apre — dicono — sotto la ghiaia e sbuca in via Nomentana, non per nascondersi ma per scappare, non per rifugiarsi ma per liberarsi. A chi ha visto la cupa perfezione della “Churchill War Room”, nel sottosuolo del Treasury Building di Londra, la sola suggestione storica che il falso bunker di Villa Torlonia risveglia è quella della povertà, senza neppure la dignità letteraria dell’intrigo, senza la grandezza del mistero dei Sotterranei del Vaticano. A Londra le stanze private del bunker di Churchill sono un vero Museo di guerra, funziona uno straordinario sistema multimediale e interattivo, ci sono ancora le mappe che disegnano le strategie, e persino gli odori sono gli stessi.
Fuori da questi modesti cunicoli invece la sola segnaletica è la parola “RIFUGIO”, scritta a stampatello, forse per non smarrirsi in ottanta metri quadrati. Alla fine mi torna in mente quel libro dolce e amaro di Cesare Marchi, Quando eravamo povera gente . Sono gli acquarelli vivi dell’Italia in bianco e nero, del latte razionato, delle dosi di farina, della borsa nera, dei traffici a metà tra pietà e cinismo, delle patacche come risorsa appunto.