Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera 25/10/2014, 25 ottobre 2014
IL VUOTO INTORNO AL LEADER
Come unico erede nonché unico sopravvissuto sia pure di secondo grado tra tutti i fondatori della Repubblica, era giusto che solo dal Pd potesse venire la parola fine all’intero universo ideologico del Novecento italiano e delle sue culture politiche. Cosa che sta per l’appunto avvenendo con Matteo Renzi. Ma che certo non poteva avvenire, per esempio, ad opera di Silvio Berlusconi: la fine della Prima Repubblica, del suo intero sistema politico e culturale, non poteva certo venire da uno che non aveva mai sentito neppure nominare «papà Cervi» (il padre dei sette fratelli fucilati nel 1943 dai fascisti). Proprio perché non sapeva praticamente niente del vecchio, delle sue radici, della sua narrazione, delle sue mitologie, Berlusconi non è stato in grado di dare inizio a nulla di nuovo, neppure per davvero alla Seconda Repubblica. Eterno dilettante «impolitico» della scena pubblica italiana, in vent’anni non è riuscito ad essere altro che l’uomo del «prendi i voti e scappa».
La fine, invece, poteva venire solo da chi, seppure giovane d’età, sapeva bene (o abbastanza bene), però, che cosa sono stati Alcide Cervi, Gramsci, il Pci, la cultura cattolica, che cosa è stata la vicenda politica del Paese, la sua saga più o meno autentica, i suoi tabù e i suoi non detti. E naturalmente poteva venire solo da chi fosse in grado di abbattere la fortezza della Sinistra: perché era dietro queste mura che si era da tempo rifugiato tutto l’ establishment repubblicano; perché, scomparsa la Democrazia cristiana e tutti gli altri, solo i lontani eredi dell’antico Partito comunista hanno custodito fino a oggi l’ultima fiammella dell’esarchia ciellenistica, origine del sistema. Infine perché se si vuole davvero cambiare l’Italia, la prima cosa è una rivoluzione culturale contro un insieme di stereotipi del passato che hanno il loro habitat elettivo proprio a sinistra.
Questa rivoluzione dall’alto (l’ennesima «rivoluzione passiva» della nostra storia) è quella a cui si è dedicato Matteo Renzi smantellando virtualmente il Pd (hanno ragione i suoi avversari interni): gettandone via pezzi della storia, distruggendone i luoghi comuni della tradizione, le idee ricevute del suo «popolo». Lo fa quasi sempre con poco garbo, è vero, spargendo sulle ferite aceto anziché miele, ma si spiega: se in tanto tempo i padri, i vari D’Alema e Bersani - che avevano tutto il garbo necessario - non sono stati capaci di cambiare nulla, cercando invece di far sopravvivere tutto con la speranza che funzionasse ancora, allora è inevitabile che i figli procedano senza guardare troppo in faccia a nessuno.
Ma proprio per le cose appena dette, smantellando il Pd, cioè smantellando la Sinistra esistente, Renzi manda all’aria tutto, perché era su quella Sinistra che storicamente ormai tutto si reggeva. Inevitabilmente, cioè, egli smantella anche la Destra. Mostrando l’obsolescenza dell’una mostra l’inconsistenza pure dell’altra, che in Italia è stata sempre priva di una vita propria.
Accade così che per circostanze riguardanti in buona misura la vicenda italiana, e dunque indipendenti dalla sua volontà, Renzi abbia ben poche speranze di essere un ricostruttore. Per cercare di rimettere in moto la storia del Paese egli ha dovuto per forza sbarazzarsi del Pd: ma facendolo vede farsi il vuoto intorno a sé. Oggi infatti, vuoi nel sistema dei partiti, vuoi sul tavolo delle proposte politiche, vuoi in lizza per eventuali leadership alternative, oltre il Pd di Renzi - cioè oltre Renzi - non c’è più nulla: solo una tabula rasa . Non a caso al presidente del Consiglio arride un consenso plebiscitario che non conosce confini di Destra e Sinistra, avendoli egli cancellati virtualmente tutti ed essendo rimasto di fatto l’unico in campo. Il suo successo si accompagna dunque alla solitudine. È la solitudine di un giovane vincitore, certo. Ma proprio in quella solitudine, bisogna dirlo, c’è qualcosa che inquieta: l’ombra di un rischio, il sentore di un eccesso.
Ernesto Galli della Loggia