Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 25/10/2014, 25 ottobre 2014
DEBITO ESATTO DA FEROCI KOSOVARI
I Nuovi Venuti, l’ultimo libro di Giorgio Dell’Arti, gran giornalista, inventore de Il Venerdì di Repubblica, e oggi autore del Foglio dei Fogli, dovrebbe essere diffuso alla Leopolda. Tra l’altro non sarebbe difficile, essendo l’editore, Clichy, fiorentino. Andrebbe diffuso, perché quello che l’autore si ostina a definire «un romanzetto», lo è solo per le non molte pagine, 96, e il vezzaggiativo non può eludere l’aggettivo che merita: «civile».
I Nuovi Venuti, diciamolo, è un romanzo civile: seppur utilizzando largamente, e a volte irresistibilmente, il registro dell’ironia, parla dell’enorme debito pubblico italiano che vari paesi s’accordano per farci pagare, forzosamente, al prezzo di un durissimo colpo di Stato, affidato a una banda di feroci kosovari.
E al Bel Paese, affidato a un Curatore, viene imposto di pagare tutto, fino all’ultimo centesimo, e soprattutto di «tornare indietro», una sorta di decrescita infelice. Ai «nuovi venuti» della Leopolda, quella lettura sarebbe utile per scongiurare, domani, altri nuovi venuti, quelli dell’incubo agrodolce di Dell’Arti.
Dell’Arti il suo libro esce praticamente in contemporeane con la lettera del commissiario Jyrki Katainen al ministro Pier Carlo Padoan. Il debito, che sta al centro del suo libro, è straordinariamente attuale.
«Sì, ma noi, noi Italiani dico, noi come Paese, sul debito non mettiamo l’accento mai. Anzi, in genere, tutto il dibattito, ne aggira il problema. Spesso le soluzioni in circolo parlano di stampare altra moneta, di consolidare, non pagare. Una grande finzione. Nella macrofinanza non si mette in luce un’assurdità».
E quale?
«Che non può esistere un Pil sempre crescente: le risorse sono limitate, la popolazione aumenta. Eppure ogni idea postula questo concetto. Ma non può essere. L’unico che ci ha ragionato sopra è Serge Latouche».
Con la decrescita felice.
«Sì, si può esser d’accordo. Ma come si fa? Presuppone appunto I Nuovi Venuti».
Cioè presuppone la forza: i kosovari che prendono governo, opposizioni, sindacati, impalando tutti sulla pubblica via.
«Già, perché devono decrescere tutti, non va bene se, poi, c’è quello che magna le ostriche. Altro che giacobinismo, in un’ipotesi simile, devi entrare nella vita privata delle persone».
E infatti i golpisti del suo libro mettono a punto una dieta per gli Italiani, salubre ma feroce: «(...) quattro giorni alla settimana una zuppa di ossa spolpate, tre volte a settimana tre quarti di litro di minestra di rape, patate, orzo e semolino o farina di segala acquosa, a cena tre etti di pane di farina di bucce dai quali bisognava ricavare anche la razione per la mattina dopo».
«Esatto. Comunque la teoria della decrescita è l’unica ipotesi che affronta il problema del Pil, tutte le altre fanno finta. Eppure non riguarda solo l’Italia e il Giappone, ma che Usa, Francia. La stessa Germania è poco sotto il 100%. Si è propensi a pensare che potremo vivere in eterno così, facendo pagare prezzi sempre più alti alle generazioni successive».
Un problema comune, ma lei ambienta il suo libro in Italia.
«Perché quello italiano è particolarmente grave, lo sappiamo, per via rapporto col Pil. Eppure non esiste nessuna forza politica che dica di voler studiare come restituirlo. Basterebbe questo: un politico a caso, chessò Matteo Renzi, il quale dicesse: «Cominciamo a pensare a un piano di rientro». Si vedrebbe schizzare verso l’alto la reputazione italiana al solo pensiero».
Rientrare in quanto?
«Anche in cento anni: il mondo non se ne spaventerebbe. Ma manca un’iniziativa politica e, quel che è peggio, manca il sentimento di questo stato di cose».
Intende anche a livello di singoli?
«Nessuno si vergogna di questo mega debito pubblico. Mentre, a livello privato, invece, non abbiamo piacere di dire d’aver fatto i buffi, come dicono a Roma, né se li abbiamo fatti per comprare la macchina o il gioiello all’amante. Quello nazionale, invece, sembra non riguardarci. Eppure dobbiamo farci conti tutti, nessuno se ne può chiamare fuori: con questo debito pubblico, ci siamo arricchiti. Qui sta, se vuole, l’aspetto culturale della vicenda».
E infatti i Tedeschi ci detestano per questo: leggono che siamo proprietari di case e, in parallelo, le cifre del nostro bilancio.
«Anche perché in Germania, col fiscal compact, gli impegni se li sono presi. Noi abbiamo già detto che non lo potremo fare ancora. Sarebbero 50 miliardi all’anno».
Nel libro si decreta il fallimento dell’Azienda Italia.
«Sì, lo decidono George W. Bush e Angela Merkel durante un incontro che c’è stato realmente».
Ho notato che, infatti, la cura del dettaglio è quasi maniacale. E il dottor Marshall, l’incaricato della vendita totale di tutto il vendibile, sublime rovesciamento del Marshall che, nel Dopoguerra, ci riempiva di ogni ben di Dio, analizza persino la lista dei capi di allevamento.
«Sono dati certi, statistici, di due anni fa: dalle sei milioni e 200mila vacche, ai nove milioni di maiali, gli otto di pecore, i sette di cani, i 7,5 di gatti. Così come la valorizzazione di 259mila euro del Monte Cristallo, sulle Dolomiti ampezzane: l’ha fatto veramente la Ragioneria generale, qualche anno fa».
Il libro fa l’elenco anche di molti vizi pubblici e privati. Quando i nuovi venuti fanno l’elenco degli enti, delle agenzie, delle autorità pubbliche da chiudere, la lista è esilarante e infinita.
«Tutte istituzioni esistenti, ci mancherebbe, dalle aree di sviluppo industriale, gli ambiti turistici, quelli territoriali, i consorzi di bonifica».
Lo stesso golpe è affidato a una banda di delinquenti, perché la polizia e i carabinieri, che se ne stanno in ufficio, sarebbero inadatti alla bisogna...
«Cose scritte nei rapporti: mezzo milione di persone. Senza dimenticare il numero infinito di corpi: un giorno mi invitarono a un dibattito in Umbria e mandarono un poliziotto provinciale a prendermi. Ecco, una di quelle Regioni che oggi parla dei tagli insostenibili ha persino i poliziotti provinciali».
Oppure quando, sempre nel libro, i tribunali decidono quali funzionari pubblici riammettere, l’accusa è durissima: «Come mai il Palazzo della Regione Lazio all’Eur, per dirne uno, era perennemente vuoto e vuoti a tutte le ore del giorno i corridoi del Ministero della Pubblica istruzione, chilometri e chilometri di corridoi, con uffici a destra e a sinistra, e in questi uffici, seduti sulle sedie davanti alle scrivanie su cui troneggiavano i computer accesi su un solitario, no c’era mai nessuno?».
«Sì, e loro, gli «aspiranti alla riassunzione», rispondono che erano i capi a far capire loro che «sarebbe stato altamente lodevole farsi vedere il meno possibile». Massì, sono le cose che abbiamo sempre scritto sui giornali. Solo che non durano più, ci scivolano addosso: non c’è più indignazione, non abbiamo neanche paura. Solo la letteratura può fare un discorso di verità, gli articoli passano».
Il libro inizia con l’inesorabile azione dei golpisti che, palazzo per palazzo, vanno a prendere i protagonisti della politica: a Gianfranco Fini, tagliano subito la testa. Anzi gliela «spiccano»...
«Pensi che vorrei organizzare una presentazione del libro con lui...».
Pierferdinando Casini viene trovato assopito al cinema Barberini; Massimo D’Alema obbligato a entrare da solo nelle acque del Tevere e «la scorta era d’accordo», il governo di Mario Monti arrestato ordinatamente, con le donne, ministre e sottosegretarie, avviate ai postriboli. Non c’è nessuno dei nuovi politici, però.
«Le ragioni sono due. Una banalmente di cronaca: ho cominciato a scrivere sotto Monti. L’altra letteraria: i nomi sono importanti e ho verificato che cambiarli non aveva lo stesso effetto. Decapitare Laura Boldrini non funzionava».
Non c’è abbastanza storia?
«Sì, lo stesso Matteo Renzi non ha ancora quello che serve per essere portato alla ghigliottina, sarebbe apparsa una cosa ideologica. Insomma ci vogliono anche delle ombre, assieme alle luci, occorre un certo spessore. E questi corpisono ancora troppo sottili».