Adriano Sofri, la Repubblica 24/10/2014, 24 ottobre 2014
IL JIHADISMO COLPISCE I LUOGHI DELLA MEMORIA E DELLA DEMOCRAZIA, COME IN CANADA, DOVE FA PIÙ MALE AL NEMICO E AMPLIFICA LA PROPAGANDA DEL TERRORE. OTTAWA, COME GIÀ LA NORVEGIA DI BREIVIK, NON SI ASPETTAVA UNA VIOLENZA COSÌ DOMESTICA E INTIMA
Basta poco oggi per fare un terrorista jihadista. Un rancore frustrato promosso a guerra di religione, un’arma — anche un fucile da caccia, come a Ottawa, o un’automobile pacifica, con cui investire i passanti — e la scelta di un bersaglio, a piacere: le nostre metropoli sono un’ininterrotta esposizione di bersagli. La vanità dell’attentatore, che sia un affiliato o uno sbandato, mira al bersaglio più grosso, più eloquente e più impressionante. Non quello che nuoccia di più al “nemico” in termini materiali: là la sproporzione è ancora troppo forte, anche se le centrali nucleari sono fatte per eccitare gli appetiti. Del resto l’ambizione dei terroristi islamisti sfidò la smisuratezza, e riuscì oltre le speranze, nell’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono.
Di qualunque rango, il terrorista sceglie il colpo che nuoccia di più al “nemico” in termini simbolici, e serva meglio alla propaganda postuma di sé e della propria bandiera. Quattro persone assassinate nel museo ebraico di Bruxelles, due soldati un rabbino e tre bambini alla scuola ebraica di Tolosa: ci sono i morti, e c’è il teatro ideale. Il monumento ai caduti, e poi il Parlamento, a Ottawa: ci sono i vivi e i morti, i caduti del passato e la loro indifesa sentinella sull’attenti. Per il terrorismo, che è una pubblicità, tutto è soprattutto simbolo, anche le persone. I bersagli simbolici sono quelli che le polizie chiamano “obiettivi sensibili”. A ridosso del disastro di Ottawa, Washington ha moltiplicato la vigilanza sul cimitero di guerra di Arlington. I simboli sono importanti per ogni comunità: ad Arlington, credo, la tomba del Milite ignoto è restata vuota, dopo che furono identificati i resti di chi vi era stato sepolto e non ricevettero il cambio; il che non attenua la reverenza per quel monumento.
Chi voglia far violenza a un “nemico” ha gioco facile nella scelta dei bersagli: quelli che il “nemico” ha simbolicamente più cari. La memoria, i luoghi della libertà di culto, le istituzioni della democrazia, le scuole: è lì che bisogna raddoppiare la vigilanza. Se fosse così, sarebbe già un’impresa immane. In realtà, la campagna che vuole terrorizzare non mira soltanto alle personalità e ai luoghi delegati della democrazia, ma alle persone e ai luoghi ordinari di un modo di vita: democrazia e modo di vita sono inseparabili l’una dall’altro. Il bersaglio più comune, una maratona di Boston amatoriale e festosa, diventa, una volta colpito, simbolicamente importante quanto la sede di un Parlamento. In uno batte il cuore dello Stato (purché lo Stato abbia un cuore), nell’altra batte il cuore della gente.
Il terrorismo — oggi quello del fanatismo jihadista — tramuta in simbolo qualsiasi segno della vita che odia e che intende piegare: un abbigliamento o una capigliatura o un’effusione o una rinfusa di persone ferme ad aspettare un autobus. Oggi, dico: perché l’analogia fra l’andamento dell’assalto di Ottawa e quello della strage di Breivik in Norvegia è impressionante, al punto di far trascurare l’opposta ispirazione. Il farabutto Breivik si proclamava investito della missione di difendere la biondezza nordica dall’invasione musulmana; il “lupo solitario” di Ottawa si voleva in missione per il Califfato. In ambedue le circostanze, sia pure con un risultato di sangue incomparabile a favore del norvegese, gli attentatori hanno potuto muovere indisturbati da un luogo all’altro del loro piano: Breivik dal centro di Oslo e la prima strage davanti a un ufficio governativo, all’isola del massacro di ragazze e ragazzi; Bibeau dal monumento ai caduti al Parlamento. Si è parlato per il Canada, come già per la Norvegia, della perdita dell’innocenza: l’aveva perduta la Svezia la sera in cui il primo ministro Olof Palme era stato assassinato mentre tornava a piedi dal cinema sottobraccio a sua moglie. La formula vale da consolazione, perché vuol dire che oggi i canadesi e ieri i norvegesi e l’altro ieri gli svedesi non si aspettavano una violenza così inconsulta domestica e intima, e dunque non la meritavano. Quanto agli americani, hanno perso tanti Presidenti che nessuna innocenza potrebbero invocare, e la questione è ridiventata drammatica anche per Obama. Ma il fatto è che quel misto di ingenuità e arrugginimento cui allude la formula sulla perdita dell’innocenza è solo una faccia della medaglia; l’altra consistendo in un’impreparazione psicologica e culturale, in quel disarmo che è diventato “in Occidente” una seconda natura, un ingrediente essenziale del nostro modo di vita. Che la democrazia sia imbelle è un luogo comune, e le democrazie — ma con la Russia di Stalin — sconfissero il nazifascismo. È un luogo comune la contrapposizione dell’America marziale all’Europa venerea, se non altro per quel superstizioso esorcismo della Casa Bianca dopo Bush, del “non mettere gli stivali sul terreno”: che sta dando prova di sé a Kobane, dove una sconfitta dura e rapida inflitta al sedicente Is avrebbe avuto davvero, oltre al resto, un peso simbolico decisivo a mortificarne la propaganda di terrore vittorioso. Noi possiamo triplicare la guardia ai nostri cimiteri di guerra, ma ci sentiamo a disagio di fronte agli assassini invasati che ci accusano di amare troppo la vita per volerla mettere a rischio. Nell’andamento delle cose della coalizione pesano anche, e non solo per lo scassato esercito iracheno, viltà e paura. Noi guardiamo costernati i nostri fratelli, padri, figli, catturati dagli sgherri jihadisti, che recitano la denuncia dei propri Paesi prima d’essere decapitati a fil di coltello, e ci chiediamo costernati se sapremmo fare altro.
Noi ci ricordiamo di aver reagito con fastidio se non con disprezzo alla voce che un nostro connazionale, il quale aveva accettato di campare proteggendo la sicurezza altrui in Iraq, aveva detto: «Vi faccio vedere come muore un italiano», o qualcosa di simile. Noi guardiamo stupefatti il signor Kevin Vickers, 58 anni, funzionario in costume del Parlamento canadese, che ha saputo andare a prendere una pistola da un cassetto, ha sparato l’assaltatore e ha telefonato alla mamma per dirle: «Sto bene».
Noi non dobbiamo diventare feroci per smettere di essere inermi e di cascare dalle nuvole se un disgraziato ci apre il fuoco addosso: dobbiamo solo risolvere un piccolo malinteso nei confronti del modo di vita, ragazze che vanno a scuola e decidono dei loro capelli, di cui non faremmo a meno, ma di cui avevamo dimenticato che era in affidamento e in prova. Abbiamo fatto tesoro di una delle opportunità più preziose di quel modo di vita: di pensarne e parlarne male e anche malissimo. Dimenticando il limite, segnato dalla frasetta famosa, che la democrazia è il peggiore dei regimi, tranne tutti gli altri. Potete scommettere che i prossimi giorni e mesi moltiplicheranno le occasioni di riparlarne.
Adriano Sofri, la Repubblica 24/10/2014