Chiara Mariani, Sette 24/10/2014, 24 ottobre 2014
A TU PER TU CON SALGADO L’UOMO DELLA FORESTA
«Se l’inquadratura non è buona, non importa quanto sei vicino al soggetto. Potrai avere un buon documento, ma non una buona foto». Sebastião Salgado, il fotografo più famoso del mondo, è sotto i riflettori di Wim Wenders. Il regista tedesco sceglie un approccio austero: Salgado, inquadrato in un primo piano stretto che sfida il buio che lo circonda, guarda le sue fotografie e le commenta. Il risultato di queste conversazioni e dell’organizzazione sapiente dei filmati che Juliano Ribeiro Salgado ha raccolto in giro per il mondo negli ultimi anni, nella speranza di conoscere un padre assente per gran parte della sua infanzia e giovinezza, costituiscono il cuore del film Il sale della Terra, uscito ieri nei cinema italiani.
L’impegno, l’esilio, la vocazione. Nato in Brasile nel 1944 nello Stato del Minas Gerais, e precisamente nella Valle del Rio Toce, Sebastião è circondato dagli spazi sterminati e incontaminati che gli trasmettono le emozioni che cercherà per tutta la vita. Nel 1964 un colpo di Stato guidato dal maresciallo Castelo Branco depone il presidente Joao Goulart. È la fine della repubblica e l’inizio di un regime militare che terminerà nel 1985 con l’elezione di Tancredo Neves. Sebastião, che nel frattempo si è laureato in economia, ha sposato Léila e ha aderito alla causa marxista, nel 1969 sceglie la via dell’esilio. La patria dei dirtti dell’uomo sembra la scelta più naturale e così lui e Léila si stabiliscono a Parigi. L’incontro con la macchina fotografica è accidentale. La moglie ne acquista una per sé, ma è il marito a subirne la magia. Abbandona una carriera promettente per inseguire una visione romantica. Investono tutto ciò che hanno in materiale fotografico, compresi i soldi prestati dagli amici, e nel 1973 si recano in Niger con il primo figlio, Juliano Ribeiro, in arrivo. È l’inizio di una carriera che non conosce battute d’arresto. Affronta il fotogiornalismo con in tasca il più sicuro dei vantaggi, ovvero una formazione solida che gli permette di collocare ciò che vede in una prospettiva storica e politica. È in Portogallo durante la Rivoluzione dei Garofani, è in Angola quando si combatte per l’indipendenza. Nel 1979 entra all’agenzia Magnum, ma è anche l’anno in cui nasce il secondo figlio, affetto da sindrome di Down: «Quando ho avuto la certezza della diagnosi, ho pianto, racconta nel film, un’avventura dolorosa ma anche molto istruttiva. È lui che mi ha spinto a guardare i visi in un altro modo, ad avvicinarmi agli uomini in modo diverso». Più in là chiarisce la sua nozione di ritratto: «Gli occhi possono raccontare molte cose... ma non è solo il fotografo l’autore dello scatto... è la persona che ti offre il suo ritratto e in quel momento ti racconta un pezzetto della sua vita». Il film di Wenders e di Juliano Ribeiro è un’occasione unica per spiare Salgado durante la realizzazione di Genesis, la fatica durata otto anni, a partire dal 2004, che conta 32 reportage in giro per il mondo alla ricerca delle popolazioni non sfiorate dalla globalizzazione e di quelle porzioni del pianeta, il 46% dice lui, non contaminate dalla mano dell’uomo. Il fotografo rivela al figlio il valore di una scatto, diventa l’esegeta di un mestiere e di se stesso, e involontariamente smaschera l’aridità di tutte quelle immagini che invadono i nostri spazi, virtuali e no, che usurpano il termine di fotografia e costituiscono un’insidia per la conoscenza.
Scorrono le sue immagini, quelle private e quelle che hanno creato uno iato nella storia della fotografia, perché dopo Workers, un manuale mondiale del lavoro fisico che si apre con i ritratti epici dei minatori della Serra Pelada, dopo Migrations, la fatica durata sei anni per documentare i drammi delle popolazioni costrette a lasciare il proprio Paese per ragioni economiche, climatiche e politiche, ogni professionista del’immagine deve confrontarsi con Salgado.
La fotografia non è anodina. È un atto politico che comporta una presa di coscienza. Salgado è austero ed essenziale: sceglie il bianco e nero, perché il colore distrae dai contenuti; sa che la fotografia è soggettiva ed esige un’enorme disciplina, perché appartiene alla sfera dell’informazione, non dell’arte; fa di tutto affinché il mondo si dimentichi che lui è anche l’autore di uno scoop, l’attentato a Ronald Reagan nel 1981, perché non vuole vincolare il suo nome a uno scatto fortuito. I tanti detrattori gli contenstano la magnificenza delle sue immagini, quasi fosse un insulto alle miserie registrate dal suo obiettivo. Lui considera la bellezza il veicolo di un contenuto e al contempo un espediente per ricambiare con il decoro gli sfortunati di cui racconta le storie. Detesta, Salgado, essere definito un militante. Tuttavia è difficile non attribuirgli questa veste.
Nel 1994 con Léila fonda l’agenzia Amazonas Images, un nome che tradisce la nostalgia. Il loro lungo viaggio, così come il film di Wenders, termina nella fazenda di papà Salgado desertificata dal disboscamento. Il fotografo, straziato da ciò che ha visto in 40 anni di carriera, cerca un sollievo da tanta disperazione. Lo trova là, nella Valle del Rio Toce. Rileva i possedimenti paterni e decide di ripiantare la foresta: dopo dieci anni 2,5 milioni di alberi di oltre 300 specie diverse ricoprono le colline della sua infanzia. Qui l’economista si riconcilia con il fotografo. «La foresta è la mia vita». Qui abbandona la lingua francese e si esprime di nuovo in portoghese. Oggi la terra dei Salgado è parco nazionale.