Sonia Oranges, Il Secolo XIX 24/10/2014, 24 ottobre 2014
I BUROSAURI HANNO FATTO INFURIARE COTTARELLI
ROMA. L’esercito dei burocrati intoccabili è duro da vincere, nonostante siano finiti nel mirino del presidente del Consiglio Matteo Renzi, sin dalla sua investitura. Sono gli stessi che hanno dato filo da torcere all’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli che al «Corriere della Sera», pochi giorni fa, ha vuotato il sacco prima di tornare, alla fine di ottobre, al Fondo monetario internazionale: «Si conoscono tutti tra di loro, parlano tutti lo stesso linguaggio», ha commentato Cottarelli, riferendosi ai capi di gabinetto. E sui responsabili degli uffici legislativi: «Hanno in mano tutto e scrivono leggi lunghissime, difficilmente leggibili». Morale della favola, questo club ristretto, geloso custode del “know-how” delle leve del potere amministrativo, se possibile non fornisce documenti e informazioni a chi non fa parte del gruppo d’élite. E se li fornisce, lo fa mettendo a disposizione di ministri e sottosegretari risposte tecniche che difficilmente possono essere obiettate o confutate.
A confermarlo, d’altra parte, è stata anche Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze promossa da Renzi alla guida dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi: «I capi di gabinetto si rifiutano di parlare con me», avrebbe lamentato assai spesso. E con chi parlano, dunque, se non con chi ha il compito di sintetizzare il prodotto normativo finale? Non si sa. La loro giustificazione pare sia che «Manzione non dà risposta alcuna, se non che, l’ha detto il presidente Renzi», alludendo al fatto che la nuova dirigente non avrebbe avuto le carte in regola per ricoprire quel ruolo. Almeno secondo la magistratura contabile che, però, alla fine ha dovuto chinare il capo ai desiderata del capo dell’esecutivo. Quella stessa magistratura amministrativa che, per decenni, ha fatto il bello e il cattivo tempo nei palazzi del potere e che il “new deal” renziano vorrebbe scalzare.
Ma tra il dire e il fare, c’è il rischio che l’operazione si ritorca contro il governo, per dolo degli europandi grand comis o meno alla fine poco importa. Così, per evitare il rischio di una definitiva paralisi dell’amministrazione, si è scelta una terza via: non il nuovismo predicato da Renzi, ma almeno un cambio di profilo dei burocrati, che da tecnici contabili, diventano politici o, almeno, avvezzi alla vis politica. È il caso di Giampaolo D’Andrea, capo di gabinetto del titolare del Mibac, ministero della Cultura, Dario Franceschini: ex democristiano, ex margheritino, ed ex sottosegretario di Romano Prodi. Ma la vera “nouvelle vogue” ha avuto inizio già prima dell’era Renzi, quando si è cominciato a parlare di tagliare gli stipendi dei funzionari del Parlamento.
Che, previdenti, hanno cominciato a trasmigrare verso i lidi ministeriali. Meglio se cumulando il doppio compenso. E proprio nelle loro mani, Renzi ha lasciato dicasteri delicati quanto i profili delle loro titolari, alcune fedelissime del nuovo leader piddino. Così, alle Riforme di Maria Elena Boschi, capo di gabinetto è Roberto Cerreto, non un giurista bensì un dottore di ricerca in Scienze politiche e consigliere parlamentare alla Camera dal 2003 al 2013. Ora è considerato vicino a Renzi, ma in molti lo davano per dalemiano. E stato sempre lui ad affiancare prima Pier Luigi Bersani e poi Enrico Letta nelle consultazioni, e di Letta è rimasto consigliere a Palazzo Chigi. Stesso profilo per il capo del legislativo, Cristiano Cesarani, trasmigrato al ministero con l’alfaniano Gaetano Quagliariello e rimastovi anche con il nuovo governo. Ha materialmente scritto la riforma costituzionale del Senato. Capo di gabinetto della ministra della Pa Marianna Madia, è Bernardo Polverari, dal 1993 al 1997 documentarista della Camera e consigliere parlamentare fino al 2014; mentre il comparto legislativo è affidato a Bernardo Mattarella, che ricopriva lo stesso incarico all’Istruzione. E che è figlio di Sergio, padre del Mattarellum. E sempre dai ranghi dei consiglieri parlamentari arriva Vito Cozzoli, capo di gabinetto della titolare del Mise, Federica Guidi: da 23 anni alla Camera era diventato capo dell’Avvocatura, pronto al salto verso il segretariato generale promessogli dall’ex presidente Gianfranco Fini. Che poi dovette rinunciare.
Insomma, una pattuglia quasi nuova nei ministeri, ma non certo al di fuori del sistema che ha governato sin qui il Paese. E che fa squadra impermeabile al pari delle toghe amministrative. Sempre ben rappresentate nelle file dei boiardi. Sempre al Mise, per esempio l’ufficio legislativo è affidato a Germana Panzironi, passata dalla Funzione pubblica all’Istruzione, alle Pari Opportunità e ora allo Sviluppo economico. E, come tutti i suoi colleghi, conservando gli scatti di carriera al pari dei giudici che frequentano davvero Tar e Consigli di Stato. Stessa musica il capo del legislativo del ministero dell’Ambiente, Alfredo Storto (già alla Funzione pubblica), o per Giacomo Aiello che guida il gabinetto del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, e Gerardo Mastrandrea titolare del legislativo; o ancora per Luigi Caso, capo di gabinetto del ministro del Lavoro Giuliano Poletti: i maligni dicono che, pur con un pedigree che spazia dall’Economia ai Lavori pubblici, non avrebbe alcuna esperienza giuslavoristica e avrebbe già combinato qualche pasticcio.
Ma è il Mef la vera roccaforte dell’ancien regime, dove hanno trovato tutela tutti i lettiani doc: dal capo di gabinetto Roberto Garofoli al potentissimo coordinatore degli uffici legislativi economici Carlo Sica.