Giorgio Bertone, Il Secolo XIX 23/10/2014, 23 ottobre 2014
LA GRANDE GUERRA NEI DIARI – CARA MOGLIE FINORA GODO DI BUONA SALUTE…
CI SONO due teorie, tra le tante, sulle guerre mondiali del Novecento. Una sostiene che esistono cause e fenomeni sostanzialmente diversi che caratterizzano e distanziano il secondo conflitto dal primo. L’altra invece vede nel secondo, pur nelle differenze anche forti, una prosecuzione del primo. È chiaro che più andiamo avanti nel tempo e dentro il Duemila, con una relativa pace o guerre improvvise, non dichiarate, pulviscolari, più la seconda teoria tende a prevalere. Addirittura c’è chi parla di un’unica guerra civile europea nel cuore del Novecento, il secolo breve che così diventa brevissimo.
Ha doppiamente ragione, dunque, Antonio Gibelli a insediarsi – e non da ora: da un’intera vita di studioso e docente di Storia contemporanea, nonché collaboratore del Secolo XIX e proprio oggi alle 17 a Palazzo Tursi di Genova primo relatore del ciclo di conferenze “1915-1945: dalla Grande guerra al 25 Aprile” – sul picco alto della guerra ’14-’18 e da lì traguardare l’intera vicenda del secolo scorso. Questo suo ultimo bel libro, intenso, documentato e appassionato (“La Guerra Grande. Storie di gente comune”, Laterza, 328 pagine, 20 euro), non nasce dunque da un pretesto aritmetico (il centenario del 1914) ma da una lunga fedeltà a un tema e a un campo di ricerca, di cui è parte non irrilevante lo stile, coinvolto e coinvolgente.
La tesi di fondo è che la “macchina”, o l’“officina” della guerra, come la vedremo rombare anche negli anni trenta-quaranta, è progettata e si mette in moto, appunto, in quegli anni. Il sottotitolo parla chiaro: la principale fonte di informazione è qui la scrittura “popolare”. Diari, cartoline, in franchigia e no, memorie, taccuini e lettere. Soprattutto lettere. Quelle dei soldati e quelle di chi rimaneva a casa. Persino quelle degli emigrati in Sudamerica che tornavano in patria perché richiamati o volontari. Ne nasce una storia corale che non è meno netta e incisiva di quelle che guardano dall’alto. Tante vicende del popolo: tratte da dove? Principalmente dall’Alsp, Archivio ligure di scrittura popolare. Con molte sorprese, inedite e no. Una delle più straordinarie è la fluviale autobiografia del “ragazzo del 99”, siciliano, Vincenzo Rabito, che è stato un caso letterario qualche anno fa. “Inalfabeta”, come definisce se stesso, Rabito stende centinaia di pagine, dove ogni parola è separata dalla seguente da un punto e virgola. E racconta per filo e per segno ogni vicenda. Incluso il suo grande desiderio di narrare, al punto che la guerra gli piace purché lo faccia sopravvivere: sopravvivere, appunto, per raccontarla, come nei grandi romanzi.
La battagli è dura, cruenta, una carneficina in serie, ma lui esita a dire, con un misto di sbigottimento e di spavalderia, “Deventammo tutte macellaie di carne umana”.
Tra le inedite, sta la testimonianza di Americo Orlando. Nato in Brasile, di origine abruzzese, torna in Italia all’improvviso, senza nemmeno avvertire i parenti, per arruolarsi, preso da un sentimento nazionalista nato oltreoceano, come succede a molti emigrati. Dal fronte scrive tenerissime lettere alla madre, scusandosi di non averla neppure salutata: “cara madre se ritorno al Brasile è solo per te e nessun altro”. E in altre pagine dispiega tutto il suo orgoglio di combattente: “con la nostra famosa artiglieria, gli abbiamo ricacciato con grande perdite circa migliaia di austriaco morti e ferite. Io con sangue freddo sotto i tire della artiglieria nemico non ho mai abbandonato il mio posto della feritoia e ho fatto circa 8 hora di fuoco contra gli austriaci e forse ho ucciso una cinquantina di austriaco” ecc.
Forse una delle condizioni più comuni per chi era al fronte e chi stava nelle retrovie, fu la fame. Luigi Colombini, prigioniero in Sassonia nel 1916 lo spiega icasticamente in pagine da lui titolate “Ciò che ha fatto fare la fame ai prigionieri Italiani”: “A Cividale mangiarono non bene Ufficiali mangiavano granturco e cavoli crudi noi soldati si mangio di tutto arrischiando la vita per uscire dal campo in cerca viveri. Nel cammino a piedi vendevano orologi e oggetti d’oro per pagnotta Mangiavano patate crude e perfino la pelle delle barbabietole”, eccetera.
Della fame sapevano qualcosa le donne rimaste a casa, il marito al fronte, come Maria, la moglie di Vittore B. Sono ben 359 lettere, alcune lunghissime. Vittore spiega alla moglie come ottenere la licenza agricola, ma quando riceve una foto della famiglia, rimane impressionato per la magrezza della donna: “se vede le osse”, “mi sembri proprio che sei venito molto vechia”. Insomma questo libro può essere letto anche come un capitolo, tra i più importanti, della storia del paese della fame, come direbbe Piero Camporesi. In questo modo Gibelli può raccontare la Grande Guerra attraverso i protagonisti “senza importanza”, una vicenda collettiva in cui per la prima volta gli italiani furono accomunati da un’esperienza tragica ma sofferta tutti insieme. Certo, Gibelli punta a scrutare le corrispondenze tra le storie dei singoli italiani dal nome qualunque e forse, virtualmente, anche gli europei.
Come dire: la Comunità Europea delle vittime. Che è pure un bel punto di vista, da cui riflettere, per il nostro Continente, oggi.
Conseguentemente l’autore non divide il materiale, che so, per classi sociali, mestieri o per regioni. Eppure le differenze non solo regionali sono ancor oggi molto forti. Lo divide per ruoli e generi: combattenti, donne, fuggiaschi, prigionieri, reduci. Perché ne vuole far scaturire una storia unitaria, sulla base della vita concreta, materiale. Una storia, va aggiunto, di alto valore letterario, anche se scritta in un italiano stentato. Proprio perché a quelle vicende atroci l’autore restituisce corpo e anima attraverso il recupero dell’elemento più umano, il linguaggio, la parola.