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 2014  ottobre 24 Venerdì calendario

Pubblicato 8 aprile 2014 | Da Piergiorgio Pescali in appendice una intervista a Aung San Suu Kyi * * * * * Proponiamo uno straordinario intervento di Piergiorgio Pescali a proposito del Myanmar

Pubblicato 8 aprile 2014 | Da Piergiorgio Pescali in appendice una intervista a Aung San Suu Kyi * * * * * Proponiamo uno straordinario intervento di Piergiorgio Pescali a proposito del Myanmar. Un saggio di grande respiro scritto appositamente per ‘Dissensi & Discordanze’ da un vero conoscitore dell’Oriente asiatico. Un quadro particolareggiato della situazione, un reportage preciso di quanto recentemente accaduto, una prefigurazione dei futuri accadimenti. Segue, una intervista del medesimo Pescali a Aung San Suu Kyi. – MdPR * * * * * Sono trascorsi tre anni e mezzo dal giorno in cui il Myanmar ha cominciato ad intraprendere un nuovo corso politico, economico e sociale. Il cammino si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci si potesse immaginare, ma, come spesso accade, dopo i primi entusiasmi sono cominciate ad affacciarsi anche le difficoltà ed i primi ostacoli. Accanto a radicati conflitti etnici e ad intolleranze religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità locali che agivano in stretta collaborazione con la polizia ed il Tatmadaw, ecco che sono insorte anche recriminazioni sociali ed economiche. I primi decreti libertari voluti dal nuovo governo civile di Thein Sein con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi militari che siedono al parlamento, si sono dimostrati più audaci e rivoluzionari di ogni altra aspettativa, ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme, accolti con favore dalla popolazione birmana e dai governi democratici occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva promossi. L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di isolamento internazionale e di rifiuto al confronto interno, ha anchilosato un sistema legislativo ed esecutivo che oggi fa fatica a tenere il passo con la richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici. La capacità di adattarsi con elasticità ed immediatezza alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino cambiamento, definirà chi potrà essere la nuova classe dirigente birmana. Sarà questo il campo in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in programma nel 2015, si confronteranno. Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico, monopolizzando quasi totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti tra musulmani e buddisti iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche in altre regioni del paese. Nel secondo caso, invece, Kachin e governo centrale hanno continuato ad alternare negoziati con il clamore delle armi. In entrambe le situazioni le istituzioni governative, il presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi sono stati duramente criticati dalle organizzazioni internazionali che si occupano del rispetto dei diritti umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per non aver criticato con sufficiente forza, le violenze settarie. In un’intervista rilasciata durante il suo viaggio in Italia nell’ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha cercato di spiegare il suo atteggiamento: «condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo ad istigare altra violenza e se le mie parole potrebbero essere fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate». Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono espressioni di due malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato visto che, proprio sulle questioni portate dai conflitti, si giocherà il futuro della convivenza civile in Myanmar. Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e buddisti, l’espandersi dei pogrom ai danni delle comunità islamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein ha incolpato «opportunisti politici ed estremisti religiosi» di aver fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che gli scontri siano stati voluti e diretti da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si sono intravisti elementi che possano aver giustificato tali dichiarazioni (ad esempio una ricerca di uno status quo che, anche tramite la dittatura, garantiva una sorta di pace sociale), appare improbabile che la destabilizzazione del paese possa favorire una precisa corrente politica. Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale». L’United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) stima che vi siano più di ottocentoottomila (808.000) Rohingya tra Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi, dei diritti che questa comporta. Secondo la Legge di Cittadinanza del 1982, il Myanmar concede il titolo ai residenti nel paese che possono dimostrare di aver avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima dell’indipendenza, avvenuta nel 1948. In questo caso, però, la domanda deve essere presentata entro la terza generazione documentando la comprovata residenza della propria famiglia. Cosa, naturalmente, pressoché impossibile da dimostrare visto che la maggior parte dei Rohingya sono emigrati durante il periodo coloniale, quando sia Birmania che India erano sotto il dominio britannico e le documentazioni relative al trasferimento da un luogo all’altro della colonia sono difficili da reperire. Lo stesso termine Rohingya è stato oggetto di aspra discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe alcuna etnia che possa definirsi tale (ed in effetti tra le centotrentacinque etnie riconosciute nel Myanmar non esiste nazione che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le fonti ufficiali governative hanno sempre identificato le comunità islamiche del Rakhine come Bengalesi giunti clandestinamente dal Bengala e dal Bangladesh e che, come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del tutto illegale. Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio compiuto nel maggio 2012, il settanta per cento (70%) dei Rohingya potrebbe avere diritto alla cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando la supremazia economica, sociale e politica dei Rakhine buddisti. Il timore che il processo di democratizzazione del regime possa favorire la risoluzione del problema incoraggiando l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli. I rapporti delle commissioni di inchiesta internazionali sono giunti a conclusioni diametralmente opposte a quelle relazionate dalla commissione stabilita da Thein Sein per investigare sulla situazione dello stato Rakhine di cui facevano parte anche membri non simpatetici con il governo, come il comico satirico Zarganar e il leader di Generazione 88, Ko Ko Gyi (nessun Rohingya, però, è stato inserito nella lista). Il rapporto finale dell’organismo birmano, dopo sette mesi di consulti e interviste sul luogo, individuava nel «rapido incremento della popolazione musulmana» uno dei principali fattori che avrebbe indotto la comunità Rakhine di fede buddista a reagire con violenza contro i Bengalesi (la parola Rohingya non è mai stata menzionata). La stessa commissione consigliava di implementare una politica di controllo delle nascite per la comunità islamica tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per evitare che venissero in contatto tra loro. La relazione è stata recepita positivamente dal governo che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vieta ai Bengalesi di avere più di due figli. Inoltre, nel solo 2013, circa settantacinquemila (75.000) Rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui, a differenza di quanto accade per i Rakhine, è richiesto un permesso speciale per potersi allontanare o entrare. Di diverso avviso, invece, sono i resoconti delle organizzazioni internazionali che hanno visitato lo stato Rakhine. Tutti concordano nell’affermare che i Rohingya sono le principali vittime di una politica inaugurata all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben prima del colpo di stato militare del 1962) e perpetuata ancora oggi dal governo di Nay Pyi Taw. Le commissioni a cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui sono detenuti gli attivisti musulmani hanno parlato di condizioni inumane e di torture inflitte ai carcerati. Nei campi profughi le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (MSF) ha parlato di emergenza umanitaria e di migliaia di persone prive di accesso alle più elementari cure mediche, mentre Human Rights Watch (HRW) ha denunciato la stretta collaborazione tra i monaci buddisti, il partito politico Rakhine e le forze del regime birmano nel fomentare le violenze contro i Rohingya. Queste commistioni hanno creato un senso di insicurezza tra le comunità musulmane anche al di fuori dello stato Rakhine. Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti, i musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare, così come era già stato fatto nel 2012, le celebrazioni dell’Eid al-Adha, durante le quali è consuetudine macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello sgozzamento. Il gesto, apprezzato da alcuni esponenti religiosi buddisti è, però, passato inosservato dalla maggioranza dei fedeli con il risultato che gli scontri si sono rapidamente espansi in gran parte delle province centrali e meridionali del paese. Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione, definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in condizioni normali sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti delle due comunità, innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali, per vendicare il presunto affronto, attaccavano ed incendiavano negozi e case appartenenti a famiglie musulmane arrivando, a volte, a saccheggiare le moschee. In tutti i casi, la polizia, non è ancora chiaro se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile. L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è sfociato nel Movimento 969, un’organizzazione fondata dal monaco U Wirathu all’inizio del 2013 e nelle cui file milita anche Wimala, un monaco molto popolare tra i fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay. Prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni attributi del Buddha storico ed al suo dharma, il 969 si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da questi popolarmente utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal. Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad incitare i fedeli a boicottare le attività commerciali condotte da islamici, ha più volte proposto alle autorità birmane un disegno di legge per vietare i matrimoni misti paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto islamico per la successiva avanzata religiosa nell’intera regione del Sudest Asiatico. L’estremismo del Movimento 969 ha portato la sangha buddista birmana a dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla politica intollerante di U Wirathu, hanno, quindi, deciso di fondare un coordinamento che contrastasse questa insofferenza, creando Pray for Myanmar. Mentre il Pray for Myanmar ha cercato faticosamente di riportare una certa tranquillità anche nel cuore dello stato birmano, per quanto riguarda i conflitti etnici che da oltre mezzo secolo stanno sconvolgendo gli stati periferici del Myanmar, il 2013 è stato foriero di importanti avvenimenti. Il governo Thein Sein è riuscito, se non altro, a raggiungere apprezzabili traguardi, in particolare sul fronte Kachin. Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del Tatmadaw alla periferia di Laiza, dove ha sede il quartier generale della Kachin Independence Organization (KIO) con la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla città, la guerra si è fatta strada fin negli uffici del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che il 2 gennaio 2013 ha chiesto al regime birmano di «desistere da ogni azione» che avrebbe messo in pericolo la vita di civili. Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Europea. La Cina, direttamente coinvolta nel conflitto sia per la condivisione del confine con lo stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria erano caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano e al KIO di intervenire per evitare l’intensificarsi della guerra. I negoziati, già difficili e complicati, sono stati resi più faticosi dalla riluttanza di Pechino stessa a coinvolgere anche gli Stati Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitarie. Persino la presenza di Harn Yawnghwe, in quanto direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles che la Cina considerava alla stregua di una organizzazione non governativa è stata in forse fino all’ultimo. Solo l’insistenza del governo birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto alla sua partecipazione. La riluttanza cinese nel condividere il tavolo delle discussioni con altri membri internazionali, specie se legati ai governi occidentali, è dovuta principalmente a due fattori: la volontà di non entrare nel merito delle lotte etniche per non dare adito a velleità indipendentiste nel vicino Yunnan e gli enormi interessi economici che il paese ha nella regione. I Kachin, a differenza dei Wa e dei Kokang, non hanno affinità etniche con gli Han cinesi. Hanno, inoltre, abbracciato per la maggior parte la religione cristiana e questo, sommato agli stretti rapporti che il KIO ha tessuto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi molto ambigui agli occhi di Pechino. Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha necessità di sfruttare le enormi ricchezze che offre questa provincia birmana. L’annullamento della costruzione della diga di Myitsone ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello Yunnan e delle limitrofe regioni meridionali. Il deficit è stato ripianato con l’entrata in funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato nell’ottobre 2013, che ha cominciato a rifornire la Cina di dodici milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno. Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha tutto l’interesse nel trasformare il Kachin in un’area stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria importanza. Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang Mai, in Tailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è stato raggiunto il 30 maggio a Myitkyina. Le due controparti in causa, il KIO e il governo di Nay Pyi Taw, hanno firmato un documento d’intesa che prevedeva la continuazione del dialogo su via politica; il graduale disimpegno militare nella regione sino alla completa cessazione delle ostilità; il monitoraggio della situazione con gruppi di controllo misti; il rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e all’esterno dei confini dello stato Kachin; il riposizionamento delle truppe del Kachin Independence Army (KIA) e del Tatmadaw; la presenza e la formazione di una squadra del KIO a Myitkyina che collabori con le autorità governative per riportare la pace; la presenza di osservatori internazionali nei successivi colloqui di verifica. Tutte le tre principali richieste del KIO, vale a dire l’indipendenza delle forze militari Kachin dal Tatmadaw; il continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico sono state accolte dalla delegazione birmana. Gli incontri tra i Kachin e il governo birmano sono continuati per tutto il resto dell’anno giungendo a ratificare un nuovo trattato all’inizio di ottobre. E’ importante notare, infine, che negli accordi non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», fortemente osteggiata dal KIO perché già presente nel testo dell’accordo siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al fallimento dei negoziati. Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo trattato di ottobre, non hanno, però, riportato la pace nello stato. Il KIO ha più volte denunciato il disinteresse dei politici Bamar nei confronti della situazione nello stato. Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti verso Aung San Suu Kyi accusata, allo stesso modo di quanto avvenuto per i Rohingya, di non difendere i diritti Kachin. Numerosi scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni passati, si sono continuati a registrare in tutto il territorio. Lo stesso Thein Sein è stato costretto ad intervenire più volte chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare ingaggi con le truppe del KIA. La scarsa attenzione mostrata dai comandanti locali alle parole del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo controllo che il governo centrale possa avere sui vertici militari. La galassia Tatmadaw, abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa tra la vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più propensa ad accettare un ruolo di subordine anche nella vita politica della nazione. L’articolo della costituzione che garantisce ai militari il venticinque per cento (25%) dei seggi nel parlamento è sempre stato visto come un impedimento al raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la considerazione è esatta, ma occorre notare che senza un consenso esplicito dei rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata dal nuovo governo. Inoltre il gruppo militare si è dimostrato sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni parlamentari. Solo in questioni considerate importanti per la sicurezza e l’unità nazionale si sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati appartenenti al Tatmadaw. Per tutte le altre decisioni in cui sono stati chiamati ad esprimere il proprio voto, si è osservata una libertà di scelta e di opinione. La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio sia contraria all’articolo costituzionale in questione, ha dichiarato che per quanto riguarda «la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso rappresenti un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente». Il timore dei generali, in particolare di coloro che sono stati pesantemente coinvolti nelle passate giunte che hanno governato la nazione fino al 2010, è che la ventata di democrazia che ha permeato il Myanmar, possa trasformarsi in un’ondata di protesta dirompente e fatale per la salvaguardia della loro dignità e delle fortune economiche famigliari. Per questi gerarchi del vecchio potere, i continui proclami di Aung San Suu Kyi nel rassicurare che «non vogliamo vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» hanno poco senso se non rispecchiano un clima popolare che, per alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è rimasta, dunque, ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese. Del resto il Tatmadaw è l’unica organizzazione transnazionale presente in Myanmar capace di mantenere unito il mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in odore di campagna elettorale ed in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere «sempre stata convinta che i militari devono lavorare a stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i militari e chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero». E’ anche per la paura di una disgregazione nazionale che il budget di spesa per il 2013-2014 ha evitato drastici tagli alla Difesa, che per il biennio ha a disposizione due miliardi e mezzo di dollari, pari al diciassette e due per cento (17,2%) del bilancio totale nazionale (quattro e due per cento – 4,2% – del PIL). La spesa, giustificata dal fatto che il paese doveva far fronte a nuove minacce interne, come i conflitti negli stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle minoranze etniche, contrastava pesantemente con il magro bilancio destinato alla sanità (tre virgola otto per cento – 3,8% – del bilancio; zero nove – 0,9% – del PIL) e alla pubblica istruzione (sette e cinque per cento – 7,5% – del bilancio; uno e otto – 1,8% – del PIL). Un’interessante nota è venuta dal fatto che, conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza del governo birmano di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di armamenti per il Tatmadaw è stata la Russia, scalzando non solo il predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana. Come anticipato all’inizio del capitolo, il governo Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme interessando vari campi della vita quotidiana, da quella sociale a quella economica. Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione pubblica con più di quattro persone è stato abrogato andando ad aggiungersi alle norme restrittive della censura di stampa, della libertà di espressione e di movimento già abolite negli anni precedenti. Tutto questo ha permesso ad una grossa fetta di popolazione, in particolare ai contadini privati negli anni della dittatura militare dei loro terreni, di unirsi in associazioni per richiedere la restituzione delle loro proprietà. Nel corso dell’anno il comitato parlamentare istituito per indagare sulle confische illegali ha ricevuto circa quattromila domande di risarcimento. Così come avvenuto per i Rohingya, indagare a ritroso sulla consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile e questo genererà ulteriore scontento che dovrà essere, in qualche modo, veicolato affinché non sfoci in dimostrazioni violente. Il caso dei contadini sfrattati dai loro villaggi nei pressi della miniera di Monywa è emblematico. Le famiglie della regione, a cui erano stati espropriati i terreni per permettere l’ampliamento della miniera di rame, si sono coalizzate occupando l’intero sito. La commissione di investigazione presieduta da Aung San Suu Kyi è stata costretta a sfoggiare tutta la sua retorica nello stilare il contorto rapporto finale consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una parte ha verificato che il giacimento non avrebbe creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato un danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che l’espansione procedesse al fine di non creare tensioni con il principale investitore, la Cina. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da Aung San Suu Kyi era di millesettecentotrenta – 1.730 – dollari USA per ogni acro) si è scontrata con la ferma condanna delle famiglie, che hanno continuato la protesta. Contestazioni simili si sono ripetute in più parti della nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni che esulavano dal contesto economico. Durante i XXVII Giochi del Sudest Asiatico, quest’anno ospitati dal Myanmar, i tifosi della nazionale di calcio si sono più volte scontrati con reparti di polizia evidenziando un crescente malessere che serpeggia tra la popolazione. La bocciatura dello schema protezionista proposto dal parlamento all’inizio del 2013 per far fronte ad eventuali ribassi troppo accentuati del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante gli economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini ad un prezzo superiore da quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti artificiali da parte di speculatori, così come è già accaduto nel passato, è reale e ancora regolarmente utilizzato nelle campagne birmane. In effetti il governo è più preoccupato di attirare nuovi investimenti che di soddisfare le richieste dei propri cittadini. I grandi sovvenzionamenti elargiti dagli istituti di credito internazionali sono stati quasi tutti diretti alla macroeconomia. La Banca Mondiale e l’Asian Development Bank hanno fatto la parte del leone elargendo un mutuo totale di quasi un miliardo di dollari per progetti socio economici ed il miglioramento della gestione pubblica. La fine delle sanzioni economiche ha portato numerosi uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuovi soluzioni d’investimento. Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua stagnante economia è stato il più attivo. Una folta delegazione composta da quaranta amministratori d’azienda e guidata dal primo ministro Shinzo Abe è stata accolta con tutti gli onori dalle principali autorità dello stato. I successivi colloqui hanno portato Tokyo a cancellare il debito di uno virgola ottantacinque (1,85) miliardi di dollari che Nay Pyi Taw aveva contratto con il governo nipponico ed al tempo stesso ad investire cinquecento milioni di dollari per la costruzione di strade e, con rammarico della Cina, centrali elettriche. Il decrepito e fatiscente network di telecomunicazioni per cellulari, invece, sarà rinnovato dalla qatariota Ooredoo e della norvegese Telenor. La concessione è stata oggetto di un lungo e, a volte, drammatico braccio di ferro tra il presidente Thein Sein, favorevole alla liberalizzazione del traffico telefonico, e il blocco militare, a cui si rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post Telecommunication, la Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation). Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a rischio dalla maggiore instabilità del paese e dalla complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi due anni si è spogliata di numerosi orpelli che l’appesantivano. La società Maplecroft, specializzata in analisi di rischio di investimenti, ha posto il Mynamar al quinto posto come paese a rischio su una classifica che tiene conto di centonovantasette economie mondiali. Peggiore ancora è la gestione delle risorse del territorio: il Revenue Watch Institute ha relegato la nazione asiatica all’ultimo posto. La pessima reputazione del governo birmano nel settore è confermata anche dal rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), che nel suo resoconto ha evidenziato che in dieci anni (dal 2002 al 2012) la superficie di terreno destinata alla coltivazione di papavero d’oppio è cresciuta del ventisei per cento (26%). Il novantadue per cento (92%) dei campi si trova nello stato Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti direttamente finanziati dai signori della droga. Il leggendario Triangolo d’Oro, l’area che include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar e Thailandia è tornato ad essere il punto dove si concentrano maggiormente le piantagioni di papaver somniferum, raggiungendo con il diciotto per cento (18%) della produzione totale nazionale, secondo solo all’Afghanistan. Il Tatmadaw, in un tentativo di analisi troppo azzardato, ha commentato i dati rilasciati dall’UNODC per evidenziare lo stretto legame esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la mancanza di uno stretto controllo dell’esercito birmano. Ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente il governo è la forte crescita del consumo interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane. Tutti questi problemi non potranno essere risolti in breve tempo e, quindi, passeranno al successore dell’attuale presidente. Thein Sein, infatti, ha già fatto sapere che non intende presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche se, più recentemente, il suo portavoce, Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamnento. Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua candidatura per le file del National League for Democracy (NLD). L’unico ostacolo che si frappone alla sua designazione è la costituzione, il cui articolo cinquantanove prevede che il presidente non sia sposato con stranieri (Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un britannico, non rientrerebbe in questa categoria) e non abbia figli stranieri (i figli avuti dal matrimonio con Michael Aris hanno passaporto britannico ed è questo che pregiudica la candidatura). Per perorare le sue ragioni e cercare alleanza tra gli stati occidentali che tanto hanno contribuito alla sua causa mentre era agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, per tutto il 2013, ha viaggiato negli Stati Uniti, Oceania, Giappone ed in Europa con il dichiarato scopo di chiedere l’emendamento della costituzione. Un gesto sicuramente interessato ed opinabile, come lei stessa ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo». Se, come è molto probabile che sia, l’articolo che impedisce la candidatura della leader dell’NLD verrà rimosso, la popolarità che gode tra i Bamar, l’etnia alla quale lei stessa appartiene e che rappresenta il sessantotto per cento (68%) della popolazione del Myanmar, le garantirà il seggio presidenziale. Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party (USDP), anche se voci sempre più insistenti indicano che potrebbe essere Shwe Mann, potente portavoce sia della Camera Bassa e della Camera Alta. Shwe Mann, che durante il regime di Than Shwe superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti dal governo, a vivaci centri di dibattito. Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente per completare il loro ritiro dalla scena politica, ma non è escluso che i dissapori che da qualche mese stanno allontanando i due uomini forti del governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile portando entrambe alla corsa presidenziale. Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici continua ad essere presentata dal governo come motivo di miglioramento dei diritti umani nel paese: a fronte di millecentoquarantuno (1.141) detenuti per reati d’opinione liberati dal 2011 all’11 dicembre 2013. La situazione dei diritti umani, anche se in via di miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco per il governo birmano. Reporters Sans Frontières ha continuato a denunciare la repressione dei media, nonostante vi sia una decreto che abbia cancellato ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge che possa garantire l’incolumità dei giornalisti questi, per evitare conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche, si autocensurano. Il Child Soldiers International, invece, ha continuato a segnalare il reclutamento di minori tra le file del Tatmadaw e degli eserciti etnici che combattono il regime di Nay Pyi Taw. Secondo il CSI alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le coalizioni Karen National Union/Karen National Liberation Army (KNU/KNLA) e Karenni National Progressive Party/Karenni Army (KNPP/KA) avrebbero avviato un programma con le Nazioni Unite per cessare l’assoldamento di combattenti minorenni, mentre in giugno l’UNICEF ha avviato un piano di azione simile con il Tatmadaw, che include il «congedo» dei militari bambini. Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore. Aung San Suu Kyi Intervista Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali che si terranno nel 2015 in Myanmar i potenziali candidati si stanno già preparando alla campagna elettorale. Aung San Suu Kyi, se riuscirà nel suo intento di emendare la costituzione birmana che, attualmente, le proibisce di candidarsi perché ha due figli con passaporto britannico, sarà la candidata per l’opposizione e, con tutta probabilità, il futuro presidente del Myanmar DOMANDA: Può fare un bilancio del suo ennesimo viaggio in Europa? ASSK: Ogni viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono stata in paesi in cui non ero mai stata, come la Polonia, ed in altri, come il vostro, dove mancavo da decenni. Ho incontrato persone meravigliose, persone che per anni si sono prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi principi umani e spirituali. Aung San Suu Kyi Aung San Suu Kyi DOMANDA: Quando parla di uomini dai profondi principi umani e spirituali pensa a qualcuno in particolare? ASSK: Sicuramente esistono persone che ti colpiscono per la gentilezza e la spiritualità che sprigionano con la loro voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad esempio, mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in sintonia, in particolare sulla necessità di valorizzare sentimenti come amore e comprensione per fugare le paure che dividono i popoli. Purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per approfondire la conversazione, ma gli argomenti toccati, il suo acume e la sua semplicità mi sono rimasti impressi. E’ una persona con cui mi sono sentita immediatamente in sintonia. Mi piacerebbe incontrarlo ancora. DOMANDA: Lei ha ricevuto tantissime promesse durante la sua visita, specialmente dai parlamentari. Penso sappia che i politici italiani non hanno la fama di mantenere le promesse fatte e l’Italia ha brillato più per la sua assenza piuttosto che per la sua presenza nelle vicende asiatiche. Non vorrei essere pessimista, ma pensa che una volta tornata in Myanmar ci si ricorderà del suo paese nel parlamento italiano? ASSK: Spero vivamente di sì. L’Italia ha appoggiato con forza il movimento democratico e numerose personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, della politica si sono esposte in primo piano nella difesa dei diritti umani in Birmania. DOMANDA: A proposito di diritti umani: a che punto siamo nel processo di pacificazione con le nazioni etniche? ASSK: Ci sono alti e bassi: il governo insiste affinché sia il parlamento a discutere la questione etnica. In effetti ci sono diversi membri che rappresentano le etnie nel nostro parlamento ed è per questo che, in questa sede, il dialogo sta già avvenendo. Da parte loro, i gruppi etnici chiedono che la questione venga discussa al di fuori del parlamento e con terze parti che facciano da garanti. Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militari, è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle loro richieste e questo porta inevitabilmente ad uno stallo dei negoziati. DOMANDA: E’ ciò che sta avvenendo anche nello stato Rakhine tra musulmani e buddisti? ASSK: In un certo senso sì, anche se lì non direi che si tratti di un conflitto etnico. E’ un contrasto completamente differente da quello in atto nelle altre parti del paese, alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità. DOMANDA: La paura è, quindi, secondo lei, una delle ragioni per cui nello stato Rakhine la comunità buddista e quella Rohingya musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso? ASSK: Prima di tutto vorrei specificare che non siamo di fronte ad un conflitto etnico. DOMANDA: Su questo, organizzazioni che si occupano di diritti umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo con lei e l’hanno anche duramente criticata. ASSK: Ribadisco che è la paura la causa delle violenze in atto tra buddisti e musulmani e non la differenza etnica. La comunità internazionale punta il dito accusatore solo verso i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze. Ci sono migliaia di buddisti che sono dovuti fuggire durante il regime militare ed ancora oggi vivono in campi profughi. DOMANDA: Associazioni e movimenti che si occupano della questione all’interno dello stato Rakhine l’hanno accusata di non voler difendere i diritti della comunità islamica per un puro calcolo elettorale in vista delle elezioni presidenziali del 2015. ASSK: Posso rispondere dicendo anche io che le loro accuse sono un’assurdità. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese. DOMANDA: E’, però, un dato di fatto che vi sono movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non addirittura alla violenza. ASSK: Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo ad istigare altra violenza e se le mie parole potrebbero essere fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate. DOMANDA: Quale è, quindi, la soluzione che propone? ASSK: Il primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania, come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si insinua. Ciò significa che il problema di cui stiamo discutendo non è solo un problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale soluzione propongo; è semplice: io la chiamo rispetto della legge e della giustizia. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale e garantire la cittadinanza a chi ne ha diritto. DOMANDA: Lei sa bene che è difficile dimostrare, per chi non ha documenti, che risiede in Birmania da più generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede, è una strada a vicolo chiuso. ASSK: E’ per questo che chiediamo che ci sia un confronto non solo all’interno della Birmania, ma anche con il Bangladesh. DOMANDA: I discorsi enunciati in questo tour sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del 2008 che vieta a cittadini come lei, che ha parenti con passaporto straniero, di candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben più importanti da emendare, come il venticinque per cento (25%) dei seggi riservati ai militari nel parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa, in caso di necessità, prendere il comando del governo? ASSK: Sì e no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Non mi preoccupa il venticinque per cento (25%) dei seggi riservati ai militari nel parlamento quanto, piuttosto, il pericolo che il comandante delle Forze Armate possa arrogarsi il diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente un punto di pericolo che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza di un potere giudiziario indipendente dal potere legislativo ed esecutivo. Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo. Mi permetta anche di evidenziare che l’emendamento della costituzione è solo il terzo punto del mio programma dopo il rispetto delle leggi e la fine delle guerre civili. Sono una politica e come tale ho degli obiettivi. Uno di questi è dare al mio popolo la democrazia. Questo è il senso dell’emendamento da me richiesto: permettere al popolo di decidere chi lo rappresenta. DOMANDA: Quale sarà il suo programma nel caso possa candidarsi? ASSK: Non voglio fare promesse che non posso mantenere. Non voglio dire che, se diverrò presidente e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) porterà pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto che faremo del nostro meglio e ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti principali del mio programma sono tre: far rispettare le leggi, porre fine alle guerre civili e emendare la costituzione. DOMANDA: Il secondo punto sarà sicuramente il più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che ha retto la Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a porre termine alle guerre etniche. ASSK: Il grosso problema è che i regimi militari ci hanno fatto perdere la capacità di dialogare e di mediare. Sotto lo SLORC prima e l’SPDC dopo, non c’è mai stata libertà di parola o di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in atto, dobbiamo riacquistare la capacità di dialogare. Ma questo significa anche sapere che non si potrà mai ottenere il cento per cento di ciò che si chiede. DOMANDA: Le riforme in atto dal 2010 hanno già portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di cento prigionieri politici nelle prigioni birmane, quando solo tre anni fa erano più di duemila. Secondo lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il potere e arrestare il processo democratico? ASSK: Certamente. E’ per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella strada verso la democrazia. Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw (le Forze Armate, ndr) che si oppongono alle riforme. DOMANDA: Chi potrebbe essere un partner fidato in questa transizione democratica? La Cina, gli Stati Uniti, l’India, l’ASEAN? ASSK: La Birmania ha sempre avuto rapporti molto stretti ed amichevoli con la Cina e, personalmente, vedo gli investimenti cinesi come un’opportunità per il mio paese. Naturalmente, come ho sempre detto, bisogna che siano investimenti non finalizzati ad esclusivo vantaggio di un solo paese o di una classe sociale. Penso sia questa la sfida che andremo ad affrontare nel futuro. DOMANDE: Lei, sin dal primo comizio tenuto alla Shwedagon nel 1988 ed a cui ero presente, ha sempre dichiarato di avere un immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw entri a far parte della vita sociale della nazione. Queste sue dichiarazioni, ripetute oggi, sconvolgono non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro che non hanno capito nulla o è lai che ha cambiato le idee? ASSK: Direi che siamo più vicini alla prima risposta. Sono sempre stata convinta che i militari devono lavorare stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i militari e chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero. Non ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anche io mi stupisco di come molta gente inorridisca quando affermo di avere grande affetto per i militari. Ma dico semplicemente ciò che ho sempre detto da venticinque anni a questa parte. Lo ripeto, ho sempre avuto grande rispetto per chi indossa una divisa. Tranne, ovviamente, per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza.