Elisa Manacorda, l’Espresso 24/10/2014, 24 ottobre 2014
Aumentano le temperature. Le piogge sono catastrofiche. E così cambiano sapore e valore nutritivo di quel che mangiamo
Aumentano le temperature. Le piogge sono catastrofiche. E così cambiano sapore e valore nutritivo di quel che mangiamo. Ecco come – Paradossi del terzo millennio. Rispetto a quello che bevevamo trent’anni fa, il vino di oggi è più alcolico: un grado di aumento, secondo la Coldiretti, di pari passo con l’aumento delle temperature. In compenso il 2014 verrà ricordato come l’anno nero dell’olio di oliva. Per colpa delle piogge battenti di quest’estate la Bactrocera Oleae (altrimenti detta mosca olearia) ha devastato le colture toscane e laziali. Ma a causa dell’andamento climatico la produzione di olio sarà scarsa ovunque, anche se i danni maggiori si vedranno al centro nord, con cali del raccolto tra il 35 e il 50 per cento. Così il fenomeno del global warming, con l’aumento delle temperature medie, della siccità in alcune regioni e delle piogge in altre, finisce anche nei nostri piatti. Per il 2050 i climatologi prevedono, per esempio, che le concentrazioni di anidride carbonica (CO2) nell’aria raggiungeranno livelli mai visti: 570 parti per milione, anziché le 400 attuali. E questo, dicono ora diversi studi scientifici, ridurrà sensibilmente il valore nutrizionale dei cibi che quotidianamente compaiono sulle nostre tavole, mettendo a rischio la salute globale. Parliamo del contenuto proteico di grano, riso, mais, patate e soia, per esempio, cioè delle specie vegetali che, in varie forme, rappresentano il principale nutrimento della popolazione del pianeta. Ma parliamo anche della consistenza delle carni del maiale o del pollo, del colore e del sapore delle uova, o della quantità di latte che mucche e pecore sarebbero in grado di produrre ogni giorno. E parliamo persino del pesce, visto che l’acidificazione delle acque oceaniche si ripercuote immediatamente sulla catena alimentare della vita marina. ADDIO PASTA AL DENTE In Italia il problema è serio, perché potrebbe riguardare il piatto nazionale: la pasta. Il grano che coltiveremo nel 2050, infatti, avrà delle caratteristiche diverse da quelle di oggi, e non necessariamente migliori, anzi. Lo dicono i risultati del progetto Duco (Durum wheat adaptation to global change: effect of elevated CO2 on yield and quality traits ), l’esperimento condotto dal Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura in collaborazione con l’Enea e il Cnr, e finanziato dalla Fondazione Ager. «I cambiamenti climatici avranno un enorme impatto sull’ambiente e su attività come l’agricoltura. Il continuo aumento della concentrazione della CO2 nell’atmosfera, infatti, ha un effetto importante sul metabolismo delle piante, e di conseguenza sulla produzione agraria, sia in termini quantitativi che qualitativi», spiega Luigi Cattivelli, coordinatore del progetto che si è chiuso ad agosto di quest’anno. Il gruppo di ricerca ha dunque testato in campo aperto gli effetti dell’aumento della CO2 su 12 diverse varietà di frumento duro. "L’esperimento è stato condotto presso l’azienda sperimentale del Cra Centro di ricerca per la Genomica di Fiorenzuola d’Arda. Abbiamo delimitato quattro aree circolari con ugelli collegati a serbatoi di anidride carbonica. Alcuni sensori posti al centro delle aree, collegati a un centralino, controllavano il flusso della CO2, affinché ci fosse una concentrazione costante di CO2 pari a 570 parti per milione", continua il ricercatore. La sperimentazione è durata da ottobre a giugno. Alla fine, il trend è emerso chiaramente: «Per i vegetali l’anidride carbonica è un alimento, dunque in generale le piante producono più biomassa, cioè crescono di più. I fusti sono più alti, i semi più grossi», spiega Cattivelli. Sembrerebbe un vantaggio. Ma contemporaneamente si assiste alla modifica della composizione del seme, con la riduzione della percentuale di proteine. E queste, oltre a rappresentare un aspetto importante della nutrizione umana, nel frumento duro sono anche quelle che mantengono la pasta soda nell’acqua bollente, e sono dunque essenziali per la cottura al dente. L’esperimento italiano conferma le ultime ricerche condotte negli Stati Uniti e appena pubblicate su "Nature Climate Change". Uno studio americano guidato da Arnold Bloom, dell’Università della California a Davis, e Samuel Myers di Harvard, ha riprodotto sul campo le condizioni ambientali previste tra qualche decennio, valutando i loro effetti su circa 41 diverse varietà di grano, riso, mais e soia. Ebbene, quando la CO2 aumenta, dicono i ricercatori, la quantità di proteine contenute nei semi diminuisce in modo evidente. Meno 6 per cento nel grano, meno 8 nel riso. Non basta. In condizioni di elevata CO2, si riducono anche i livelli di altri elementi essenziali per la salute come zinco e ferro. Meno 9 per cento di zinco nel grano, meno 5 di ferro nel riso, e analoghe percentuali anche nel mais e nella soia. «Se si calcola che nel mondo oltre due miliardi di persone, soprattutto bambini e donne in gravidanza, già soffrono di carenze di questi elementi», commenta Myers: «Appare chiaro come il global warming rappresenti anche un gigantesco problema di salute pubblica». Che colpirebbe soprattutto i paesi in via di sviluppo. Perché, come ricorda Laura Rossi, nutrizionista e ricercatrice del Centro di Ricerca per gli alimenti e la nutrizione, alle nostre latitudini la diminuzione di zinco e ferro sarebbe poco rilevante, mentre la riduzione del contenuto proteico in soia, grano e riso avrebbe effetti minimi sulla salute. «Anche perché i cibi di cui parliamo non sono la principale fonte delle proteine a noi necessarie, che assumiamo invece mangiando carne, uova, pesce e legumi, che potremmo quindi consumare di più». Eppure nessuno dovrebbe dormire sonni tranquilli: perché, continua Myers, l’aumento dei carboidrati nei semi potrebbe aumentare i tassi di diabete e di malattie cardiovascolari proprio nelle nostre regioni, in quei paesi dove l’obesità è una condizione sempre più diffusa. LA BISTECCA È INSIPIDA Se i vegetariani piangono, anche i carnivori hanno poco da ridere. Perché come l’agricoltura, anche l’allevamento è destinato a ricevere un duro colpo dagli sconvolgimenti climatici prossimi venturi. Non soltanto i cambiamenti nella composizione nutrizionale dei mangimi avranno un impatto sulle carni di bovini, ovini e suini. Ma le variazioni di temperatura potrebbero anche incidere sulla qualità, oltre che sulla quantità, di prodotti come latte, formaggi e uova. Prendiamo per esempio l’allevamento dei polli. «Per questi volatili la temperatura critica è di circa 30 gradi centigradi», spiega Laszlo Babinszky, del Dipartimento di Biotecnologie alimentari dell’Università di Debrecen, in Ungheria, autore nel 2011 di un volume sugli effetti socioeconomici dei cambiamenti climatici. Al di sopra di questa soglia, e in condizioni di alta umidità, il metabolismo dei polli va in tilt. Gli animali smettono di mangiare, la produzione di uova si riduce, e spesso sopraggiunge la morte. Lo stress termico, continua lo studioso, accelera la produzione di radicali liberi, che ritarda la schiusa delle uova e rende le carni meno sode, meno proteiche, più grasse e dunque di qualità più scadente. Chi volesse ripiegare sulle braciole di maiale avrà di che lamentarsi. Anche in questo caso, infatti, l’aumento delle temperature potrebbe alterare la qualità delle carni dei suini. Alcuni studi recenti, continua il ricercatore ungherese, indicano che in condizioni di eccessivo caldo e umidità anche i maiali mangiano meno, compromettendo l’accrescimento dell’animale, e nelle carni il rapporto tra componente grassa e componente proteica viene alterato a scapito di quest’ultima. Peggio ancora se sotto la lente c’è l’allevamento dei bovini. I forti stress termici generati da un innalzamento delle temperature - continua Babinszky - potrebbero generare una riduzione nella produzione di latte di circa due litri al giorno per animale (cioè una resa inferiore fino al 10 per cento), nonché la composizione di questo alimento: meno proteine, e meno grassi. E ancora: un forte stress termico ridurrebbe la crescita delle mucche, soprattutto di quelle allevate all’aperto. Animali di peso inferiore avrebbero meno grasso muscolare, e le carni risulterebbero meno succose e tenere. Soluzioni? «In questo caso la compensazione, cioè il diversificare gli alimenti, dovrebbe puntare sul consumo di altre fonti di proteine animali», continua la nutrizionista. E magari, sapendo che le carni conterranno anche più grassi, provare a ridurne il consumo, con beneficio di tutti. DAL MARE, POCO FOSFORO Il riscaldamento globale è destinato a infrangere anche uno degli ultimi miti alimentari: mangiare pesce, nel 2050, non migliorerà più le nostre capacità cerebrali. Uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto di Ecologia in Olanda mostra infatti come l’aumento della CO2 si ripercuoterà anche sulla vita marina, modificando le qualità nutritive di pesci e crostacei. L’indagine parte dalle micro-alghe, che sotto l’influenza dei cambiamenti climatici cresceranno sempre più in fretta. Ma come accade sulla terraferma per riso e grano, anche la composizione delle piante acquatiche si modificherà, così come il loro valore nutrizionale. Ed essendo le micro-alghe alla base della catena alimentare sottomarina, questa variazione influenzerà anche il sapore e la consistenza delle carni della fauna ittica. I ricercatori hanno riprodotto le condizioni del 2050 coltivando in grandi vasconi ad alti livelli di CO2 diverse varietà di questi minuscoli esseri galleggianti unicellulari, analizzando successivamente il rapporto tra elementi essenziali come carbonio, azoto e fosforo. I risultati sono in parte quelli attesi: ad alte concentrazioni di anidride carbonica, le microalghe crescono più rapidamente. Ma questa crescita porta con sé una variazione nella loro composizione: più carbonio, meno fosforo. Questo, spiegano gli studiosi olandesi, risulta nella riduzione del loro valore nutritivo, influenzando tutta la catena alimentare. «Per gli esseri umani, il problema non sarebbe tanto nella disponibilità di fosforo in sé, quanto nelle ripercussioni sull’ecosistema», spiega Rossi. Meno fosforo significa meno pesce. E questo vorrebbe dire ridurre ulteriormente il consumo di un alimento prezioso, ricco di nutrienti importanti, primi tra tutti gli omega 3. «Già oggi mangiamo una quantità di pesce insufficiente a soddisfare le raccomandazioni nutritive (cioè almeno due porzioni a settimana). Uno scenario in cui il fosforo diminuisca sensibilmente comporterebbe la riduzione della disponibilità e dunque del consumo di pesce".