Edoardo Sassi, Corriere della Sera 24/10/2014, 24 ottobre 2014
I RUMORI DELLA VITA QUOTIDIANA SONO IN MOSTRA AL MAXXI. DALL’ACQUA DI BILL FONTANA A ORACLE 2.0 DI JUSTIN BENNETT CHE DISPENSA PREMONIZIONI AL VISITATORE
Sono dappertutto. Si sentono, ma non si vedono (o quasi). Disseminate in ogni angolo di un museo che, stavolta, si è eccezionalmente svuotato solo per loro. Atrio, scale, gallerie, il grande cortile esterno: tutto il MAXXI è invaso fino al 30 novembre di installazioni sonore per la mostra dal titolo Open Museum Open City , che accoglie il visitatore nella hall d’ingresso con l’opera dell’americano Bill Fontana, un omaggio alla Città Eterna.
La sua Sonic Mapping è infatti una scultura immersiva, un’opera che porta all’interno dell’architettura di Zaha Hadid i suoni del flusso dell’Acquedotto Vergine, grandioso intervento idraulico d’età romana che da più di duemila anni (fu inaugurata nel 19 a. C.) scorre nell’Urbe sotterranea alimentando anche le celebri fontane della città, Fontana di Trevi compresa.
Come da titolo, la creazione di Fontana — Ohio, classe 1947 — è una sorta di mappatura di questi molteplici suoni prodotti dall’Acquedotto, o meglio dall’acqua che vi scorre attraverso: «L’Acqua Vergine — spiega l’artista — rappresenta, in maniera simbolica ma anche effettiva, il cuore acustico di Roma. Ne definisce l’identità. E con quest’opera arriva a dialogare con il museo del terzo millennio e le sue forme».
A curare la mostra — definibile così solo per comodità, trattandosi in realtà di un progetto non visivo in cui nulla davvero si mostra , ma tutto di percepisce — è il direttore artistico del MAXXI, Hou Hanru, il quale ha selezionato oltre quaranta artisti e ideato un fitto calendario di eventi, incontri, performance, concerti e dibattiti a tema: «L’obiettivo è quello di trasformare per sei settimane il MAXXI in una sorta di nuovo Foro Romano, un luogo di incontro, un territorio di confronto e sperimentazione della cultura contemporanea». Protagonista, appunto, il suono, anzi i suoni, ogni volta declinati diversamente a seconda dell’intervento dei singoli artisti. Tra gli altri: Cevdet Erek, Lara Favaretto, Francesco Fonassi, Ryoji Ikeda, Haroon Mirza, il collettivo «Ram radioartemobile» con H.H. Lim e Jean-Baptiste Ganne, il quale ha «tradotto» il Don Quijote di Cervantes in codice Morse con un nastro di luce rossa lampeggiante.
«E la costruzione di questo nuovo Foro che abbiamo immaginato — ha spiegato ancora Hanru — inizia con questo gesto radicale, il MAXXI totalmente messo a nudo, vuoto ma anche pieno perché pregno dei suoni delle installazioni sonore site-specific prodotte per gli spazi museali dai tanti artisti internazionali invitati a partecipare all’operazione».
Un’operazione radicale, sì, ma che in realtà si colloca in un filone preciso dell’arte contemporanea di ricerca, filone che parte almeno idealmente dal celebre Intonarumori futurista di Luigi Russolo e attraversa tutta la cultura delle Neoavanguardie, fino a oggi, passando per John Cage, il «D’io» di Gino De Dominicis, la Digital Art.
Immateriale e in buona parte invisibile, Open Museum Open City risponde comunque a una particolare esigenza del museo: «Svuotare le sale e riempirle di suono è un atto di coraggio — ha insistito ieri Giovanna Melandri, presidente della Fondazione MAXXI — è fare spazio, dare voce, aprirsi, mettersi in ascolto, toccando temi contemporanei e universali quali l’origine del cosmo, la natura, la musica, la rivoluzione, la comunità. Confermiamo anche così il nostro interesse a coinvolgere il pubblico, soprattutto di giovani, attraverso una programmazione sempre più interdisciplinare e che sia un punto di riferimento della creatività contemporanea».
Rumori, musiche, sgocciolii, folle in tumulto, interventi verbali, emittenti radio, singole note: per il visitatore/spettatore si tratta di fatto di percorrere un itinerario sensoriale e non di rado sorprendente, in cui le opere — quasi tutte frutto di un sostanziale processo di smaterializzazione — vanno intercettate soprattutto drizzando l’orecchio. E ciò vale tanto per Oracle 2.0 di Justin Bennett — strumento «divinatorio» in cui un dispositivo-oracolo, novella Pizia, dispensa premonizioni al visitatore con citazioni da Confucio, Cicerone, Jean-Luc Godard o David Lynch — quanto per l’elegante Sublimated music di Philippe Rahm, un sofisticato ambiente dove una moltitudine apparentemente casuale di suoni rivela infine, mano a mano che ci si muove, Cloches à Travers les Feuilles , brano per pianoforte di Claude Debussy: la sua musica non è eseguita nella linearità canonica del tempo, ma in rapporto alla spazialità della galleria.
Edoardo Sassi, Corriere della Sera 24/10/2014