Roberto Di Caro, l’Espresso 24/10/2014, 24 ottobre 2014
IL POVERELLO DI PALERMO
Figlio di costruttori, ha rinunciato a tutto e come il frate d’Assisi da 25 anni vive per gli ultimi. Oggi Biagio Conte assiste mille persone. E la sua storia è diventata un film –
Ha gli occhi azzurri, Biagio Conte, e i denti bianchi perfetti come gli attori che nei film interpretano Gesù Cristo. La barba lunga ma ben curata e in ordine. Un saio di tela poverissimo ma nient’affatto straccione, verde oliva per una serie di ragioni, nessuna casuale: perché è il colore della speranza, e l’olivo è l’albero che mette radici e su quelle crescono germogli, e dai germogli si rinasce, «come queste persone che vedi e nell’indifferenza del mondo rischiavano di morire, ma se te ne prendi cura si risollevano e tornano a vivere», dice dei mille altrimenti allo sbando che a Palermo lui ospita e nutre ogni giorno nelle sue tre Missioni di speranza e carità. Sono 25 anni che vive così, in città punto di riferimento, spina nel fianco e pietra dello scandalo: eremita e pellegrino, alla Stazione Centrale tra emarginati e senzatetto, poi il saio, i voti di povertà, castità, obbedienza, la guerra per trovare spazi e soldi per aiutare chiunque arrivi da lui, e a turno con trecento volontari andare ogni notte a portare coperte e cibo caldo a chi neppure ha la forza di chiedere. «Guardali, qua c’è il termometro di una società che, se continua a lasciare indietro i più deboli, finirà per sfaldarsi».
Parla con una passione minuta, continua, non selettiva, Biagio Conte, niente agenda, niente appuntamenti, a chiunque gli si avvicini: al marocchino cui serve una "residenza virtuale", al napoletano che lo prende per la manica e gli dice «se tu non mi aiuti me ne vado a rubare», a Gonzales che del «non ti far morire dentro la speranza» di papa Francesco non sa che farsene perché «sto morendo prima io, non voglio fare la fine di mio nipote che si è dato fuoco». Lo devi rincorrere, Biagio, nel suo continuo affaccendarsi dietro ogni minuzia, dallo stato critico del magazzino viveri fino ai gatti che scorrazzano in cortile e alle tartarughe nella fontana di San Francesco e il lupo: «È ovunque, il lupo, il nemico è in ogni luogo, ma San Francesco riuscì a redimerlo, a convertirlo al bene. Vale anche oggi, vale in ogni campo».
Come regga un ritmo del genere non fai in tempo a chiederglielo: «Scusa, io ora devo pregare, devo farlo adesso, ne ho bisogno, cinque volte al giorno», più le lunghe settimane di eremitaggio in monti siciliani quasi inaccessibili. Una vitalità esasperata, la sua, talora scandita da improvvisi sbotti d’ira: del film che il regista Pasquale Scimeca ha appena girato su di lui (si veda il riquadro a pagina 56) tocca parlare quasi di straforo, teme lo taccino di protagonismo. Lui che per ottenere l’ex-convento dove ora ospita le donne ha girato scalzo un anno intero! Che per protesta contro la cecità e l’insipienza delle istituzioni per tre volte s’è messo una croce in spalla e ha girato tutta Palermo, anche un mese fa quando dal Comune gli è arrivata una bolletta di 84.700 euro di arretrati sulla spazzatura: un gruppo su Facebook, migliaia di followers, il sindaco Leoluca Orlando che s’impegna a trovare una soluzione, come finirà ancora non sa. «Sì, ero infuriato, mi sono attaccato alla croce, me la sono caricata addosso...» Prendere sulle proprie spalle tutti i mali del mondo: la frase del Vangelo che i più ripetono a vuoto, per quest’uomo un po’ fuori tempo, e un po’ senza tempo a dispetto dei 51 anni e di una vita complicata, è diventata da un quarto di secolo gesto quotidiano, di ogni ora, ogni istante. Niente di così strano, in fondo: le storie delle Vite dei Santi abbondano di simili tratti radicali del carattere, senza un’oncia di follìa non fai le cose che ha fatto lui, e insomma qualche modello bisogna pur averlo, nella vita. Agostino d’Ippona è perfetto alla bisogna, lui che molto peccò, pregò, combatté: «L’ho letto solo cinque anni fa, ma la sua è la mia stessa avventura!»
Costruttore edile doveva diventare. Come suo padre, che il successo se l’era conquistato da emigrante in cementeria in Svizzera, dove Biagio ha passato l’infanzia dai due ai dieci anni. A differenza della madre e delle due sorelle, con lui non l’ha mai ricucita davvero, non gli è andata giù la vita scelta dal suo unico figlio maschio: «Ma anche il papà di Francesco d’Assisi fu molto duro con lui». Che tipo era Biagio ventenne? «Ateo, e mi ci stavo accanendo. Fidanzato, per tre volte. Amante delle grandi mangiate, ora sono parco e vegetariano. Alla moda, sempre vestito di nero e grigio, forse perché non riuscivo a colorare e a riscaldare la mia vita. Dipingevo e studiavo scienze, arte, filosofia, ma non riempivano il vuoto che sentivo dentro». Così, a 26 anni, il 5 maggio del ’90, dopo una sera coi genitori a guardare in tv i bambini in Africa morire di fame, Biagio molla tutto. In felpa e jeans, ma stavolta colorati, per nove mesi fa l’eremita in una grotta a Raddusa e a piedi pellegrina fino ad Assisi. Un pastore lo soccorre e lo nutre, «mi sono sempre autolesionato», riconosce col sorriso, ma quando torna a Palermo è uno straccio. Gira per i quartieri disastrati, non c’è che da scegliere, vive in Stazione Centrale con i disperati che vuole aiutare: «I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno dei cieli», campeggia scolpito nella chiesetta della Missione nell’ex-disinfettatoio comunale in via Archirafi occupato vent’anni fa.
Tutto nasce qui, ora una bella palazzina gialla anni Trenta con un’aquila del fascio secca e smagrita e un enorme Cristo in croce all’angolo della via, niente riscaldamento, letti anche sotto il portico perché Biagio non rifiuta nessuno: ma allora era solo un edificio abbandonato in rovina. Lui ha da poco scelto il saio e gira con un bastone da pellegrino perché «siamo sempre in cammino». Con pochi altri, in testa don Pino Vitrano tuttora il suo comandante in seconda e l’unico che maneggia i soldi, si prendono l’immobile con un colpo di mano, e lo rimettono in sesto col lavoro dell’associazione di Padova "Universitari costruttori" e gli 80 milioni di lire dei regali di nozze di una ragazza di Agrigento. La Provvidenza, dice. Segno o coincidenza, quando il 15 settembre 1993 va dal sindaco, l’Orlando della "primavera palermitana", a chiedere gli riconoscano il comodato per l’ex-disinfettatoio, incontra a Palazzo delle Aquile un prete che va a domandare uno spazio per aprire una scuola ai bambini del quartiere Brancaccio: si presentano, si abbracciano come se si conoscessero, si scambiano poche battute. Quel parroco era don Pino Puglisi, quella stessa sera verrà ucciso dalla mafia con un colpo alla nuca.
Come i conti possano tornare, nell’incerto equilibrio di Biagio tra autolesionismo e divina provvidenza, è la sua storia di miracolato. Che lui racconta senza enfasi, con discrezione: «Ho tirato troppo la corda, per dieci anni ho sofferto dolori alla schiena, bastone, stampella, poi la sedia a rotelle e una neuropatia alle gambe, cianotiche. A Lourdes mandavo gli altri, io non avevo tempo. Finché quattro fratelli mi han detto "o vieni o non andiamo". Sul bagno nella vasca ero scettico, non basta stare qui? Ci sono entrato il penultimo giorno. Al ritorno ero guarito. Una grazia inaspettata. Sì, ora ho messo un po’ d’ordine nella mia vita».
Ma, come dice il Qoelet, L’Ecclesiaste, qui citato su lapidi e calendario, c’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra: «Guardati attorno, in Italia, è tutto un campo di battaglia». Fine anni Novanta, Biagio la guerra la fa alla gestione comunale dell’Opera Pia: riesce a farsi assegnare l’ex-convento abbandonato di Santa Caterina, accanto alle Mura della pace. Con tre consorelle che vestono il saio uguale al suo, e la regola di un ordine religioso che ancora non c’è ma come associazione pubblica di fedeli è riconosciuta dalla Diocesi, ospita ora 150 fra donne e bambini, in stanze a quattro o sei letti e vari spazi gioco. La gerarchia? Qualche tira e molla, ma l’ha sempre appoggiato. Nel ’92 il cardinal Pappalardo venne a celebrare messa da lui sotto i portici della Stazione, il successore De Giorgi mangiava a volte alla mensa della Missione, l’attuale Romeo lo incoraggia. Papa Ratzinger lo volle incontrare quando venne a Palermo, Francesco dice quello che lui pensa e pratica da sempre. Ogni risultato è però frutto di una battaglia. Della burocrazia Biagio parla come farebbe un piccolo imprenditore del Nordest: «Aiutare gli altri non è facile, ma ostacolare chi lo fa è un paradosso! Le scuole di Palermo ci hanno regalato pannelli solari che ci farebbero risparmiare 30 mila euro l’anno, ma l’Enel non ce li fa allacciare perché ci manca il titolo di comodato d’uso per la missione di via Decollati!»
È, proprio a ridosso del muro della stazione ferroviaria, la terza e più grande delle sue Missioni, dove anche lui vive nella stanzetta ordinata e spoglia di un prefabbricato. Ex-caserma dell’Aeronautica, accanto a una stazione dei Carabinieri, per tenersela Biagio ha passato settimane sui tetti. Enormi stanzoni e un capannone. Materassi a terra, con le reti non si riusciva a pulire, ovunque borse e sacchi e vestiti, un’unica macchia di colori. Per un mese o per anni ci vivono in settecento, in maggioranza dall’Africa, sopravvissuti ai barconi che infestano il Mediterraneo. Chi trova piccoli lavori saltuari, chi gioca a dama, chi impara il mestiere di panettiere, falegname, fabbro, elettricista, indoratore di mobili. Fanno il pane con il grano della comunità agricola che hanno costituito a Tagliavia, territorio di Corleone: «Dovessimo comprarlo, sarebbero 400 euro al giorno. Non pretendiamo sussidi, non abbiamo sovvenzioni pubbliche». E tutto il resto che serve per ospitare e nutrire mille persone? «Le famiglie che ci fanno offerte. Le parrocchie. Le raccolte alimentari nei paesi». La Guardia di finanza porta a volte la carne sequestrata nei macelli clandestini. «Ma ora la situazione è davvero pesante». Padre perché mi hai abbandonato, come Gesù nell’orto di Getsemani? «L’ho pensato un mese fa. Sono fuggito in un eremo. Sono tornato. Ho girato con la croce. Se credi alla chiamata, non puoi voltarti indietro».