Marzio Breda, Corriere della Sera 23/10/2014, 23 ottobre 2014
GIAN BURRASCA E PINOCCHIO, GLI ITALIANI IN PRIMA PAGINA
GIAN BURRASCA E PINOCCHIO, GLI ITALIANI IN PRIMA PAGINA –
Nel 1917 Giuseppe Prezzolini descrisse la tragedia di Caporetto con la parabola «dei furbi e dei fessi», ripresa negli anni di piombo da Alberto Cavallari in uno straordinario «fondo» di Natale per il «Corriere della Sera». La tesi era che l’identità italiana è divisa tra due categorie. Ci sono i furbi, che «comandano, arricchiscono, sbagliano, perdono e mandano allo sbaraglio» gli altri. Cioè i fessi, che «lavorano, obbediscono, accettano tutto, lottano e sanno persino morire per la Patria». Lo si è visto appunto nella tragedia di Caporetto (e infinite altre volte), che fu prodotta dai furbi e pagata dai fessi. I quali poi riuscirono comunque a vincere regalando ai furbi la gloria di Vittorio Veneto.
Uno schema binario per tanti aspetti analogo è proposto da Pier Luigi Vercesi in una storia d’Italia costruita su una controstoria del nostro giornalismo: Ne ammazza più la penna (Sellerio). Mille memorie incrociate che illuminano di una luce inedita la parabola tra il 1815 e il 1945. Vi sono classificati due prototipi di giornalisti, e perciò di italiani: il Gian Burrasca e il Pinocchio. Il primo, ideato da Luigi Bertelli, alias Vamba, redattore del «Giornalino della Domenica», è d’indole gaglioffa, un bugiardo patologico, un aspirante rivoluzionario che come Lenin e Mussolini «ha sempre ragione» ed è destinato a diventare legionario fiumano, ardito, ras del fascio e oggi sarebbe forse un «un kamikaze pronto a mandare il mondo in malora». Invece il burattino concepito da Carlo Lorenzini, in arte Collodi, nelle stanze della «Nazione», è una creatura ingenua e buona, che se mente lo fa pentendosene già mentre il naso gli si allunga e che quando cerca l’albero degli zecchini d’oro vorrebbe arricchire più il suo «povero babbino» che se stesso.
Una dissociazione che si può dire antropologica, con rari slittamenti a vantaggio dei fessi/pinocchi. E che, se si sfoglia l’album di famiglia della nostra stampa, si dimostra un’utile chiave di lettura per capire chi siamo. Vercesi — che dirige «Sette», il magazine del «Corriere», coltivando la passione per l’approfondimento storico — tenta quindi anche, e anzi soprattutto, la narrazione di un carattere nazionale. Incardinata su un inventario di fatti e su alcune «verità del momento», come Bernardo Valli ha sintetizzato i frammenti che restano negli archivi dei cronisti, testimoni del tempo presente più che sacerdoti di verità assolute.
Quello ricomposto nel saggio, con una penetrante cifra stilistica e con dissacratorie ma affettuose ironie per i colleghi del passato, è un secolo e mezzo in cui si alternano stagioni grandiose e terribili. Le battaglie e le lotte per la libertà e i valori democratici sono cadenzate da conflitti e bagni di sangue. A ogni rinascimento seguono drammatiche decadenze. Le conquiste sociali vengono svuotate dalle smanie totalitarie. Nella cultura, gli scatti delle avanguardie arrancano nella palude dei conformisti. Così, il protogiornalismo di Carlo Porta, Silvio Pellico o Cristina Trivulzio Belgiojoso riflette un’idea dell’Italia in bilico, che fermenta nei moti mazziniani, con uno sfondo tra bohème e scapigliatura. Certo, molte risonanze sentimentali irrigano ed enfatizzano il sogno patriottico. Ma l’adesione alla causa italiana è tutta razionale, dentro ci sono messaggi forti che affascinano l’Europa.
Dopo l’epopea dei Mille, che schiera al seguito di Garibaldi pattuglie di cronisti (tra cui Dumas e parecchi corrispondenti stranieri), nasce un Paese che ha bisogno d’essere raccontato. Esattamente il compito dei giornali, 50 solo a Napoli negli ultimi decenni dell’Ottocento. Quando si afferma il giornalismo moderno, con Abba e De Amicis fuoriclasse dei reportage e mentre appaiono inedite analisi politiche e pezzi giudiziari e di colore, l’Italietta s’indigna per la sua prima — di tante che verranno — questione morale: lo scandalo della Banca Romana. Non basta: a riprova di come i poteri forti abbiano l’ossessione di narcotizzare l’opinione pubblica comprando il consenso e riducendo a una subalternità obbediente il quarto potere, poco più tardi si scopre che diversi giornalisti sono a libro paga di Giolitti. Nessuno stupore, però. Pure la corruzione, al pari dell’intermittente contagio delle ipocrisie politiche, è virale.
La parentesi delle guerre coloniali e la Prima guerra mondiale, con l’Italia che diventa belligerante anche su spinta dei «gazzettieri» e in cui si ufficializza la censura e si vara la formula dei reporter embedded, segnano la genesi del giornalismo come lo conosciamo ora. Meno attardato nei vecchi canoni letterari e più strettamente professionale. Si apre la caccia agli scoop, ci si danna per non prendere «buchi». Luigi Albertini crea al Corriere perfino «l’inviato speciale aereo», Vittorio Beonio Brocchieri, e spedisce Luigi Barzini, la star assoluta, in ogni angolo del mondo. Lo sforzo, con d’Annunzio che incita dalla prima pagina le truppe in trincea, impenna le vendite fino a un milione di copie.
Ma ormai si entra nel pieno Novecento, quello delle catene ideologiche che impone Mussolini nelle vesti di «caporedattore d’Italia», come lo qualifica Vercesi, ricordandone la «fedina giornalistica». Il duce conosce i trucchi del mestiere e li perfeziona con una propaganda rinforzata con il manganello degli squadristi. E, com’era fatale, lo Strapaese si lascia ipnotizzare dai suoi raptus retorici dal balcone (in realtà un balconcino profondo 30-40 centimetri) di piazza Venezia. Giganteggiano, fino a Salò e oltre, figure che fanno opinione sui media e si combattono su versanti opposti: da Gobetti a Matteotti, da Maccari a Longanesi, a tanti altri, anche geniali. Non diremo che i primi due erano «fessi», ma si sa che fine hanno fatto prima di far vincere la Resistenza. Da morti. Mentre altri, pentiti veri e no, si sono curati di cancellare le tracce.
Marzio Breda, Corriere della Sera 23/10/2014