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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

SULL’ORARIO DI LAVORO KEYNES FECE CILECCA

Nel 1889 Henry Bergson, nel «Saggio sui dati immediati della coscienza», contrapponeva al tempo oggettivo (quello del calendario) il tempo soggettivo (quello dell’anima, come lo aveva chiamato Sant’Agostino). Nello stesso anno, la Prima Internazionale, al congresso di Parigi, reclamava l’introduzione per legge della giornata lavorativa di otto ore. Sia il filosofo francese sia il movimento operaio dovevano fare i conti con la nascente civiltà delle macchine, in cui l’orologio diventa l’arbitro della disciplina di fabbrica. L’antica separazione tra tempo sacro e tempo profano viene meno, e si ripresenta come rapporto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Rapporto espresso dallo storico motto «otto ore di lavoro, otto ore di istruzione, otto ore di riposo», coniato dalle Trade Unions inglesi nel 1869. Motto che animerà le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro, fino alle otto ore conquistate dai minatori americani nel 1896.
Ma, dopo i traguardi delle 48 ore settimanali negli anni Venti, delle 40 negli anni Sessanta e delle 36 - o 35 - negli anni Novanta del secolo scorso, quello che sembrava un cammino inarrestabile (Keynes aveva preconizzato addirittura una giornata lavorativa di tre ore) si è bruscamente interrotto. L’inversione di tendenza è radicale: nel 2004 le maestranze delle case automobilistiche tedesche accettano un prolungamento dell’orario a parità di paga. La stessa legge francese sulle 35 ore (firmata dalla socialista Martine Aubry nel 1999) è, come il nostro articolo 18, una specie di tabù di carta. Dopo aver conosciuto significative deroghe per le aziende in difficoltà, ora il ministro dell’Economia Emmanuel Macron si appresta ad aggirarla rendendo più agevole il ricorso al lavoro notturno e festivo.
Si è lungamente dibattuto sulle ragioni di fondo di questa retromarcia. Va detto che non è facile, anche per le economie più sviluppate, reggere le opposte dinamiche di una durata del lavoro che diminuisce e di una speranza di vita che aumenta. Se poi consideriamo i dati Ocse, vediamo che gli americani sono più produttivi e, insieme, più sgobboni. In altre parole, non è solo una questione di produttività, ma di orari. Si sostiene solitamente che il maggior lavoro degli americani stia alla base del loro (relativo) alto tenore di vita. Tuttavia, è lecito chiedersi se è proprio il superlavoro che spiega il tenore di vita, o non è il tenore di vita che spiega il superlavoro. In ogni caso, il giorno in cui anche in Italia potremo farci questa domanda, vorrà dire che qualcosa sta cambiando.
Michele Magno, ItaliaOggi 23/10/2014