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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

ARTICOLI SU RENEE ZELLWEGER DAI GIORNALI DEL 23/10/2014

GUIA SONCINI, LA REPUBBLICA -
Un paio di settimane fa Hugh Grant ha dichiarato che la sceneggiatura del terzo Bridget Jones gli fa schifo e non ha alcuna intenzione di girarlo. A voler giocare ai piccoli retroscenisti, ci sarebbe da ipotizzare che il caso Z, che sta impegnando i commentatori d’etica e d’estetica, sia stato orchestrato dai produttori: una sottotrama perfetta, anche Hugh dovrà ammetterlo.
Renée Zellweger, attrice texana famosa soprattutto per aver interpretato l’eroina comica inglese per eccellenza, Bridget Jones, ha fatto una cosa ordinaria: è andata a una serata di gala a Los Angeles. La reazione è stata straordinaria: da 36 ore, non si parla d’altro che della faccia di Renée, che non è più la faccia di Bridget. Riassunto delle principali posizioni prese dai commentatori.
Sacerdoti dell’essere se stessi, forse troppo influenzati dallo slogan romantico di Bridget («Ti amo proprio così come sei»): è uno schifo, è una rovina, i chirurghi plastici vanno arrestati.
Psicanalisti dilettanti da un tanto a zigomo, pronti a esporre con la sicumera di chi la sa lunga le ragioni di una tizia che non hanno mai incontrato: si vede che c’è un disagio, si vede che non sta bene, poverina.
Femministe: dovete smetterla di dire alle donne cosa devono fare, dovete smetterla di giudicare le scelte delle altre, lasciatela in pace, non imponetele i vostri canoni estetici.
Tutte e tre le categorie hanno i loro torti, giacché il caso è più interessante dell’abituale «esponente del mondo dello spettacolo si rifà e noi tutti qui a dire che stava meglio prima di gonfiarsi le labbra». A uno sguardo non professionale, la signora nelle foto di lunedì non pare rifatta. Semmai sembra che si sia tolta quel rigonfiamento vagamente innaturale che aveva sempre avuto agli zigomi (e che di solito solo se è posticcio non cala con l’età: lo zigomo naturale è più sporgente a vent’anni che a quaranta, e Zellweger ne ha 45). Il naso è uguale, la bocca pure. Le sopracciglia sono più naturali: tanto rumore per aver smesso di utilizzare le pinzette?
Siccome giocare col kit del piccolo psicanalista è uno sport mondiale nell’era dell’osservazione delle celebrità, Zellweger ieri ha saggiamente assecondato gli interpreti delle altrui intenzioni e degli altrui malesseri, dimostrandosi un’abilissima rivoltatrice di frittate. Ha dichiarato a People che se ha un aspetto diverso è perché è più felice, rilassata, non s’ammazza di lavoro come prima e questo suo nuovo prenderla con calma le si legge in faccia. Ha definito il caso una «scemenza», ma certo non s’aspetta che smetta di sovreccitare i commentatori, ed è consapevole che “no comment” non basti, nell’era in cui riteniamo nostro diritto sapere i fatti della gente famosa: «Quelli che sono in cerca di qualche nefasta quanto inesistente verità non si muovono da davanti al citofono finché non apro la porta».
Dimostrandosi più saggia di chi ha difeso il suo diritto a cambiarsi la faccia, non ne ha fatto una questione femminile, di corpo che solo allorché è delle donne viene commentato e giudicato. Sarà consapevole, almeno lei, di quanto venga stigmatizzata e irrisa ogni chirurgia plastica anche maschile, da Mickey Rourke a Billy Crystal. Anzi, magari il nuovo e più convincente soggetto è quello: Bridget si fa vedere finalmente al naturale, e tutti si scandalizzano e la accusano d’essersi rifatta; il fidanzato cattivo, interpretato da Hugh Grant, per solidarietà si fa gonfiare le labbra.

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ELVIRA SERRA, CORRIERE DELLA SERA -
Ora tutti a puntarle il dito contro: che è successo a Bridget Jones? Come se perdere trenta chili per vincere un Oscar fosse encomiabile, ma farlo di propria spontanea volontà — per correre una maratona, perché si è diventati vegani, per vanità o perché è cambiato il metabolismo — meritasse pubblico disprezzo. E sul volto, il ragionamento è lo stesso: un conto è trasformarlo per fiction, un altro è cambiarlo dopo essere incappate nel chirurgo sbagliato. La lettera scarlatta resta: Renée Zellweger non è più la stessa.
La sua passerella, lunedì, all’ Elle Women in Hollywood Awards di Beverly Hills in compagnia del fidanzato, il capellone Doyle Bramhall, ha monopolizzato l’attenzione di blogger, giornali online e spietati (ex) ammiratori che sui social network hanno fatto a pezzetti il viso smagrito, la fronte liscia, gli zigomi gonfi dell’ex segretaria più buffa e maldestra del cinema, la protagonista del Diario di Bridget Jones .
Addio chili di troppo, faccetta imbronciata e occhioni marroni addolciti dalle caratteristiche palpebre un po’ pendenti: l’attrice premio Oscar di Ritorno a Cold Mountain è apparsa invecchiata, filiforme, con gli occhi azzurri (quale sarà il colore vero?) e inequivocabilmente diversa.
Una scelta che non le è stata perdonata, tanto da convincerla a replicare con una intervista a People in cui ha cercato con eleganza di minimizzare: «Sono contenta che la gente mi veda in modo diverso perché sto vivendo un periodo diverso: sono felice, la mia vita è più appagante e sono contenta che tutto questo risulti anche all’esterno».
Basterà? Forse no. Per questo sono scesi in campo i commentatori dei più importanti giornali internazionali, che hanno difeso con varie argomentazioni il suo nuovo volto. The Huffington Post Usa ne ha usate addirittura ventidue, la prima delle quali è: «Perché il giorno dopo una serata animata da gentile spirito femminista tutti hanno sentito il bisogno di parlare soltanto della faccia di Renée». Il Time ha scritto che l’attrice può fare quello che vuole con il suo corpo: anche tatuarsi sulla fronte «Io sono Bridget Jones». E il Guardian ha virato sulla discriminazione di genere: com’è che tante storie non sono state fatte con Mickey Rourke? Che poi, è forse diventato un attore meno bravo? No. The Wrestler , di cui era il protagonista, ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia e gli è valso un Golden Globe e un Indipendent Spirit Award, oltre a una candidatura all’Oscar.
Renée Zellweger ha turbato i suoi fan anche perché il processo di riconoscimento dei volti è una funzione cerebrale specifica. «Il cervello, per riconoscere visi già visti, ha come riferimento dei punti precisi che sono localizzati nel terzo medio della faccia, vale a dire l’area degli occhi, naso e porzione di guancia laterale. Importanti cambiamenti su questa zona, a prescindere dal fatto che siano eseguiti correttamente o meno, determinano un allontanamento dal file registrato in precedenza dal cervello», spiega la chirurga plastica Chiara Andretto Amodeo.
Resta il fatto, sgradevole, che debba essere la società a dettare regole ed eccezioni, in un crescendo di giudizi ipocriti. «Non è nuovo il bisogno che tutte le società hanno di dire non soltanto che cosa è bello, ma anche chi può esserlo, e di definire il confine tra capriccio e necessità», interviene la sociologa Rossella Ghigi, già autrice di Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica (Il Mulino).
Ed è avvilente non che una donna ricorra al bisturi, ma che lo faccia per essere accettata. Chiosa Lorella Zanardo, esperta sul tema del corpo delle donne: «Non credo che Bruno Vespa o Matteo Renzi abbiano mai pensato di farsi togliere i nei e nessuno se ne sente disturbato. George Clooney sarà pure un gran bellone, ma ha una ruga naso-labiale che gli si può infilare il dito dentro. Antonio Banderas è un sex symbol pazzesco e ha il volto segnato. Non sarà arrivato il momento di pretendere lo stesso trattamento per noi donne?».
Elvira Serra

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VALERIA BRAGHIERI, IL GIORNALE -
Quando ieri un nostro collega è caduto nell’immancabile clichè machista di voler prendere le distanze dagli argomenti che profumano di cipria e parlando del pasticcio che Renée Zellweger ha combinato con la sua faccia ci ha chiesto «Renée chi?! Non so assolutamente chi sia...», la prima cosa che ci è venuta da rispondergli è stato «nemmeno lei».
L’ultimo red carpet dell’attrice texana si è trasformato in una moderna Via Crucis senza Risurrezione. La pelle tesa in procinto di squamarsi come cartone da imballaggio rimasto troppo al sole, gli occhi chiusi, il naso schiacciato, la fronte trasparente, gli zigomi così gonfi che si vedeva anche la marca della protesi, i connotati cambiati insomma, da qualche brutta botta presa però da «dentro».
«Tutto merito di una vita sana e del mio uomo (Doyle Bramhall II, ndr)». Ecco, in quel «merito» detto convinta a chi le chiedeva spiegazioni della sua metamorfosi, purtroppo c’è tutto. Tutto il suo disagio che si chiama «dispercezione» ed è una malattia.
Quando un’attrice si devasta di chirurgia plastica, la prima cosa a cui si pensa è che tutto si riduca a un’ansia da immagine, a una necessità professionale, alla non rassegnazione di vedersi diverse da come ci si vede dall’altra parte della telecamere, o diverse dalla pellicola girata dieci anni prima, o al timore che non arrivino più telefonate dai produttori o offerte gagliarde di copioni gagliardi che parlano di ragazze gagliarde. Gente abituata alla plastica, condannata a diventare plastica. Gente che confonde i piani della realtà e finisce col perderla di vista. Ma forse è troppo semplice anche così. «Lasciamele tutte. Ci ho messo una vita a farmele...» disse una volta Anna Magnani al suo truccatore intento a coprirle le rughe con il cerone. Perché il problema non sono le rughe, il problema è come te le sei fatta venire, cosa le ha scavate.
Anche i medici dovrebbero ricordarsi di essere medici prima che chirurghi estetici. O dovrebbero, come insegna Alessandro Bergonzoni, optare per una chirurgia etica prima che estetica: capire quando, più che il seno, bisognerebbe rifarsi il senno. Non a caso queste poverine ricompaiono dal dimenticatoio sotto forma di streghe, Joker o cernie dopo anni professionalmente infruttuosi, flop al botteghino o amori infelici. Sbucano all’improvviso irriconoscibili anche per i loro stessi figli, spaventosi collage di più ere, di più persone, fissandoti con occhi improvvisamente vecchi incastonati a stento in mezzo a facce improvvisamente giovani.
Tornano e sembrano disperatamente voler convincere che non è successo niente, che non è cambiato niente. Ma è sui set che si dice «scusa, questa la posso rifare?», nella vita, purtroppo, è sempre «ciak, buona la prima», anche se è venuta male.
La diva del Diario di Bridget Jones colpisce perché non è solo rifatta male, o troppo: è un’altra. Per rifarsi la faccia, ha perso la faccia. Parlano del suo nuovo boy friend come dell’ultimo amore, dopo una carrellata di storie famose e sfortunate, ma vai a saperlo se sarà davvero l’ultimo, se stavolta andrà bene. E Renée, che ha 45 anni e nella vita ha tribolato più della sfigata paffutella che ha interpretato al cinema, lo sa che non lo si può sapere, esattamente come il sangue sa che ora è anche se ci si tira la faccia fino alla massima (?!) resa. Certi bisturi dovrebbero andare più a fondo prima di tagliare, o invece di tagliare...
Reneé ha pensato di rifare la scena, ma la telecamera era spenta e non c’era nessuno a riprenderla. Si è «truccata» troppo per vivere, roba pesante, permanente. L’ha fatto forse per tornare indietro e adesso non si può più davvero tornare indietro.
E dire che un’attrice dovrebbe essere capace di aggrottare le sopracciglia e una donna dovrebbe aver voglia di invecchiare con la faccia che si muove. I chili, gli amori, i copioni, gli anni... non si legge più niente su quel viso, tantomeno un nuovo inizio, purtroppo.

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SELVAGGIA LUCARELLI, LIBERO -
Avrei voluto vedere la faccia di Papa Francesco quando gli hanno consegnato il dossier sulla diocesi di Albenga con il riassunto dettagliato di tutte le vicende che hanno movimentato la vita nelle varie parrocchie negli ultimi anni. Quelli, per essere precisi, in cui ha esercitato la sua missione pastorale il vescovo Mario Oliveri, ora commissariato come un qualsiasi comune con infiltrazioni camorristiche. A voler essere ottimisti, al povero Papa è venuta voglia di chiamare a raduno le guardie svizzere e dare il via a una guerra santa contro la riviera ligure.
Se l’ipotesi vi pare eccessiva o surreale, è bene riassumere i fatti più eclatanti accaduti da quelle parti. Intanto va premesso che il vescovo Oliveri ha sempre dichiarato la sua volontà di chiamare a sé i preti scomodi, magari allontanati da altre parrocchie, perché «è giusto lasciare le 99 pecorelle per cercare quella smarrita», ha dichiarato. Discorso sacrosanto, per carità. C’è però un problema. Mentre il vescovo girava per campi a cercare la pecorella smarrita, le altre 99 andavano chi ad adescare minorenni, chi a infilarsi crocifissi d’argento sotto la tunica, chi a fare il piacione con le mogli di altri come un Balotelli in libera uscita a Manchester. Insomma, da qualche anno, nella diocesi di Albenga, le pecorelle non sono semplicemente smarrite. Soffrono di labirintite acuta. E il buon Oliveri, anziché aver chiuso il recinto, è parso ben felice di tenerlo spalancato. In principio fu Don Luciano Massaferro, reggente delle parrocchie di San Giovanni Battista e San Vincenzo. Una pecorella così raccomandabile da avere il compito di vegliare su ben due parrocchie, mica di cambiare i ceri in chiesa a fine giornata. Peccato che la pecorella fosse sì smarrita, ma diventasse meglio di un Tom Tom quando si trattava di adocchiare chierichette undicenni a cui alzare la gonna. In quell’occasione, il buon vescovo dichiarò: «Chi attacca cerca di giustificare il male che è in sé cercando il male negli altri». In pratica, chi mandò in galera Don Luciano era un molestatore di chierichette, mentre Don Luciano un’inoffensiva pecorella che brucava in pace. Poi ci fu la pecorella Don Silvano De Matteis, parroco di Loano. Qui la faccenda è degna di un cinepanettone. Durante una processione il sacerdote vide la moglie del comandante della capitaneria di porto e si ingrifò. Fece degli apprezzamenti che neanche De Sica alla Ferilli in Natale a New York. Il marito di lei lo querelò, la pecorella fece una controquerela per minacce (quello gli avrà detto «se ti azzardi a ridire qualcosa a mia moglie ti muro nel battistero di Albenga») e alla fine fu trasferito in un’altra parrocchia. Ma ci fu anche il caso Don Cesare Donati, parroco di Bastia d’Albenga, il quale ebbe una relazione con una donna. Che voglio dire, visti gli incidenti di percorso delle altre pecorelle, poteva pure puntare alla beatificazione. Invece il sacerdote puntò all’aperitivo. Aprì un bar con la sua fidanzata e continuò a celebrare messa nei fine settimana, alternando il vino della messa al mojito del suo locale. Il vescovo allora decise che c’era un modo per togliersi dall’imbarazzo, ovvero affidare al prete barman una parrocchia minore e sostituirlo con una persona più morigerata. Fabrizio Corona era momentaneamente agli arresti e quindi optò per un prete che finì nudo su alcuni siti gay. Altra pecorella smarrita che smarriva pure i vestiti con la webcam incidentalmente accesa, di tanto in tanto. Meraviglioso poi il caso di Padre Alfonso Maria Parente, della parrocchia di San Bartolomeo. Prima andò a Sanremo giovani e come una Ruby Rubacuori qualunque mentì sulla sua età, dichiarando 32 anni anziché i suoi 38 (scoperto, fu buttato fuori perché il limite per partecipare era di 35 anni). Poi scappò con la cassa della parrocchia. Poi si mise a vendere il kit di Padre Pio truffando 8000 fedeli convinti che il ricavato andasse in beneficienza. Peccato che i soldi se li tenesse lui e che finì ai domiciliari. Fu sostituito con una scelta sobria: no, non con un altro personaggio dedito alla beneficienza, ovvero Edoardo Costa. Con Don Juan Pablo. Uno con la passione per il culturismo anzichè per il culto della fede e con un convivente uomo. Un francescano, insomma, ma nel senso che aveva il poster di Francesco Arca in camera da letto. In carcere invece ci finì un’altra pecorella smarrita, Don Renato Giaccardi, della parrocchia di Loano. Lui si limitò a beccarsi 4 anni per induzione e sfruttamento della prostituzione minorile. Una condanna profondamente ingiusta, visto che il suo spirito era così caritatevole che dava più soldi ai ragazzini che gli portavano degli amichetti. Una sorta di tre per due, insomma. Il buon Don Renato adottava più né meno la politica del Cocoricò e qualcuno ha pensato bene di metterlo in galera. Che mondo iniquo. Insomma, davvero un peccato che il vescovo Mario Oliveri sia commissariato perché è un autentico talent scout del sacerdozio. Uno che a furia di accogliere pecorelle smarrite ha smarrito sia il mistero della fede che l’evidenza della fedina penale. E dispiace molto che lo sostituisca un nunzio apostolico. Ancora un paio d’anni di sua oculata missione pastorale ad Albenga e una parrocchia a Genny ’a Carogna non l’avrebbe tolta nessuno.