Daniele Martini, il Fatto Quotidiano 22/10/2014, 22 ottobre 2014
ANAS, L’ULTIMA PRIVATIZZAZIONE ANNUNCIATA CHE NON SI FARA’
Dal cappello a cilindro dell’Anas spuntano le orecchie dell’ennesimo coniglio. Questa volta si chiama privatizzazione. Qualche tempo fa si trattava, invece, dell’esumazione del cadavere del Ponte sullo Stretto. E ancor prima della brillante idea di far pagare un pedaggio ai pendolari sul Grande raccordo anulare di Roma e perfino agli automobilisti della Salerno-Reggio Calabria, un’autostrada che è come un ergastolo: fine dei lavori mai. Tutte pensate estemporanee, rimaste a mezz’aria. La privatizzazione rischia di fare la stessa fine.
L’AMMINISTRATORE e presidente, Pietro Ciucci, alla privatizzazione dice però di crederci davvero e per lanciare l’impresa ha messo al lavoro un pool di dirigenti fidati. E il bello è che il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, e quello del Tesoro, Pier Carlo Padoan, invece di liquidare la faccenda con un’alzata di spalle, la tengono viva come un’ipotesi non immediata, ma neanche impossibile. A dispetto di queste intese cordiali tra management e politica, al momento mancano però i presupposti economici perché l’Anas possa essere sul serio messa sul mercato. Per un motivo semplice e definitivo: l’azienda delle strade ha poco o nulla che possa far gola ai privati.
L’Anas è una società per azioni che vive di maggiorazioni sui pedaggi autostradali e di trasferimenti pubblici, 634 milioni di euro in totale secondo l’ultimo bilancio, mentre i ricavi ottenuti sul mercato con la vendita di prestazioni e servizi sono meno di un decimo (57 milioni). L’utile c’è, ma è quasi simbolico: 10 milioni. I 25 mila chilometri di strade che l’azienda pubblica gestisce non sono di sua proprietà, ma appartengono al Demanio, mentre le voci di entrata sono poche, di entità modesta e sfruttate maluccio, oltretutto. Come la pubblicità autostradale, per esempio. L’Anas potrebbe cedere direttamente i suoi spazi nelle stazioni di servizio guadagnandoci bene e invece si rivolge alle agenzie lasciando che siano loro a leccarsi i baffi con la vendita delle inserzioni.
In teoria l’Anas dovrebbe finanziarsi anche con la riscossione dei diritti sugli accessi che si immettono sulle statali (come i passi carrabili in città), ma anche qui è più la rimessa del guadagno. Periodicamente l’azienda delle strade cerca di capire quante sono davvero queste intersezioni organizzando censimenti. L’ultimo è in corso di svolgimento da 3 anni. Il risultato è che solo una parte minima di accessi è autorizzata e versa un contributo, un’altra parte esiste, ma non è autorizzata. E infine c’è perfino una quota autorizzata nonostante violi il codice della strada. Il fatto è che l’Anas è sempre meno fisicamente presente sulle strade, i compartimenti sono stati progressivamente depauperati a vantaggio della mastodontica direzione centrale romana di via Monzambano e dintorni dove negli ultimi tempi gli organici sono cresciuti di 1.300 persone.
L’Anas riscuote pure un aggio per la sorveglianza sulle concessionarie autostradali, anche se il servizio è passato sotto la competenza del ministero delle Infrastrutture. Sono una ventina di milioni di euro l’anno che prima o poi dovranno essere ceduti al legittimo pretendente. Pensando però alla privatizzazione, Ciucci vorrebbe che i pedaggi autostradali aumentassero ulteriormente (2 millesimi a chilometro) a vantaggio di Anas e a danno degli automobilisti, naturalmente. In altri momenti l’azienda delle strade avrebbe potuto tentare di riprendere dai privati le lucrose concessioni autostradali scadute. Ma anche quel treno è passato e con la scusa che non c’erano soldi pubblici per pagare gli eventuali diritti per il subentro, le concessioni sono rimaste a chi le aveva. Anzi, con lo Sblocca Italia il governo di Matteo Renzi ha provveduto ad allungarle ancora, trasformandole in giganteschi benefit a vita.
ANAS È PURE AZIONISTA di qualche autostrada, in alcuni casi con i privati, dalla Asti-Cuneo a Cav-Concessioni autostradali venete, ma anche in questo caso i dividendi, quando ci sono, risultano modesti. In compenso fioriscono i consigli di amministrazione e le poltrone. Come quella di amministratore delegato del Cav consegnata a Piero Buoncristiano, l’ex capo del personale Anas andato in pensione e immediatamente ripescato, un manager a cui in passato erano già stati affidati lucrosi collaudi a Venezia per il Mose dello scandalo.
A fronte di entrate modeste e incerte, sull’altro piatto della bilancia ci sono i costi sicuri. Una parte cospicua dei trasferimenti pubblici viene inghiottita dagli stipendi: 357 milioni l’anno per pagare circa 6 mila dipendenti e la bellezza di 200 dirigenti a cui vengono corrisposte retribuzioni assai più elevate di quelle previste dalle leggi recenti per i manager pubblici. Il condirettore generale Stefano Granati, per esempio, porta a casa oltre 400 mila euro l’anno, 304 mila fissi, più 106 mila come “retribuzione per obiettivi”. Il condirettore tecnico, Alfredo Bajo, quasi 310 mila euro, 247 mila fissi e 61 mila per obiettivi. Il capo delle relazioni esterne, Giuseppe Scanni, 250 mila euro. Poi c’è il gigantesco contenzioso con le imprese appaltatrici: 655 milioni di euro che è una cifra sottostimata, relativa solo ai dati ufficiali del sistema informatico interno Ica, mentre sotto la cenere covano cifre assai più elevate. E infine le spesucce, come i 400 mila euro per l’iscrizione Anas alla bellezza di 22 associazioni, compresa Civita di Gianni Letta (22 mila euro). In vista della privatizzazione, il primo obiettivo dell’amministratore-presidente Ciucci sarebbe quello di far uscire l’Anas dal perimetro della pubblica amministrazione. Ed è questo forse il tema che più gli sta a cuore. Perché varcare quel confine significherebbe per i dirigenti Anas poter conservare i loro altissimi stipendi ignorando i tetti imposti dalle leggi. E significherebbe inoltre sfuggire al fastidioso controllo della Corte dei Conti (che da Ciucci ed altri dirigenti vuole 38 milioni per il risarcimento di un danno erariale). E significherebbe, infine, eludere subito le verifiche stringenti della nuova Autorità anti corruzione guidata dal magistrato Raffaele Cantone.