Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 22/10/2014, 22 ottobre 2014
CASINI IMPALATO, D’ALEMA AFFOGATO NEL TEVERE, BERLUSCONI DEFENESTRATO: “I NUOVI VENUTI”, ROMANZETTO DI GIORGIO DELL’ARTI, È LA CRONACA DI UN VIOLENTISSIMO COLPO DI STATO CHE AZZERA NEL SANGUE LA CLASSE DIRIGENTE DI UN PAESE IMBOLSITO E MORIBONDO
Pier Ferdinando Casini, impalato in località Tor Tre Teste. D’Alema, affogato nel Tevere con piena soddisfazione della scorta. Berlusconi, defenestrato da un antico albergo milanese. Di Pietro “legato a due trattori” fatti partire in direzioni opposte. Veltroni, lapidato. Fini, decapitato. Renata Polverini, impiccata. Alfano, fucilato. E poi sindacalisti, magistrati, e giornalisti, ex tribuni e capicorrente, tutti eliminati, al ritmo del putsch che non conosce pietà e ha urgenza di “ristabilire i princìpi” e definire le regole nel segno del terrore.
“Volevamo con questo rendere noto che uno solo era il titolare della forza, e che quell’uno eravamo noi” scrive Giorgio Dell’Arti in un romanzo: “Io lo chiamo romanzetto” di rara efficacia iconoclasta in cui simboli del presente e marionette del nostro passato prossimo, fanno invariabilmente una pessima fine. Dell’Arti ha scritto I nuovi venuti immaginando un feroce colpo di Stato “In un Paese senza spina dorsale” in cui per abito mentale “ci si consegna subito al vincitore”. Una nazione bolsa e incapace di reazione, in cui l’unica resistenza ai severi divieti dei neodittatori si coagula nell’organizzazione di un campionato di calcio clandestino presto degenerato in guerra tra tifosi senza sorpresa per le autorità: “Per parte nostra nessuna meraviglia, essendoci ben noto l’odio che qualunque italiano nutre per qualunque altro italiano”.
Per proiettarsi con ironia in una contemporaneità allucinata, in bilico tra la modesta proposta di Swift, le profezie di Orwell e le atmosfere del Truman Show di Weir: “I palinsesti sono la più importante delle leggi” Dell’Arti ha rinunciato alla prudenza. Ha vergato un incipit, lo ha consegnato a pochi amici fidati: “Mi ha aiutato l’entusiasmo di Mauro Della Porta Raffo” e oggi aspetta il risultato del suo apologo morale: “Un oggetto crudo e stravagante che nuota in un incubo” con la serenità dell’asceta: “Ho lavorato per mesi al libro con la brutta sensazione che stessi scrivendo una cazzata. Non ero convinto, non lo sono neanche adesso. In qualche strano modo, I nuovi venuti si è scritto da sé”.
Qualcuno non sarà contento: “Ma non importa, i compromessi mi annoiano e diserto le cene romane” e qualcun altro si indignerà. Ne I nuovi venuti non si salva nessuno. Nelle città militarizzate, ferite da 5.000 esecuzioni al giorno, non mancano i bordelli per i mercenari adibiti al lavoro sporco. Postriboli in cui “alla vecchia maniera, con cambi ogni 15 giorni”, si danno la staffetta nelle alcove, in piena alternanza democratica, Gelmini e Santanché, Melandri e Serracchiani, Brambilla e Finocchiaro.
I polizziotti italiani sono impiegati bolsi, sanguisughe assenteiste: “Assegni sociali”, gente “obbligata al principio della tolleranza”. “Mitezza e sopportazione” in divisa che avevano reso possibile “ogni forma di prepotenza”. A incaricarsi della mattanza in loro vece, “i kosovari”. Il braccio armato del redde rationem. L’esercito in divisa rossa che mette in mora la nostra cialtronesca finanza creativa, esegue ordini arrivati dall’alto: “Merkel e Bush si incontrarono per risolvere una volta per tutte il problema del debito italiano” e insanguina un contesto fosco. Dal Grand Guignol sono risparmiati i renziani, ma solo, nota Dell’Arti, per le fondamenta fragili: “Renzi non ha lo spessore per fare questa fine, per morire così devi avere una storia alle spalle”.
Se chiedi a questo siciliano del ’45, inventore deIlVenerdì di Repubblica, curatore de Il Foglio dei Fogli e conduttore radiofonico quale sia stata la melodia alla base de I nuovi venuti, la risposta è sciasciana. E la spiegazione, pur “semplice”, come la scrittura che sogna: “Sono dalla parte di Simenon e non di D’Annunzio. È essenziale provare a farsi capire, scavare nei resti apparentemente inutili della parola, scegliere con cura tra le mille ambiguità di un termine” non si scorge con facilità. “Non è detto che la ferocia del mio libro debba significare qualcosa. È un romanzo, ha il diritto di evocare suggestioni e contraddizioni senza sfiorare il pericoloso ambito del messaggio e senza doversi spiegare, come invece avviene, quasi per costituzione, nel saggio”. Il desiderio originario di tornare al romanzo, sostiene, nasce da una frustrazione: “A quasi 70 anni si può dire senza vergogna. Come tanti altri giornalisti volevo fare lo scrittore. Rinunciai per insicurezza. L’incontro con quel grand’uomo di Antonio Ghirelli fu rivelatore. Aveva intuito le mie aspirazioni e stroncò le velleità con un’equazione: ‘Il giornalismo sta alla letteratura come la prostituzione sta all’amore’”. Anche “se non è del tutto vero” e il suo secondo romanzo: “fu stroncato con accanimento”, Dell’Arti non si è pentito della perseveranza e non piagnucola.
Ne I nuovi venuti, sottotraccia, si puniscono “i lamentosi” e “chi non ha capito che la caduta della domanda coincide con quella del desiderio. Un’epoca immune dalle guerre e felice come questa, negli ultimi 70 anni, per l’Occidente non c’è mai stata. Ma siamo in crisi perché abbiamo tutto e ostinandoci a non pagare i nostri debiti, preferiamo lagnarci ignorando cosa sia davvero la miseria”. Se i conquistatori arrivassero, elemosinare clemenza non basterebbe.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 22/10/2014