Sergio Romano, Corriere della Sera 22/10/2014, 22 ottobre 2014
LA FINE DELL’UNIONE SOVIETICA E QUEL PIANO MARSHALL PER I RUSSI MAI ATTUATO (E CHE FORSE NON SAREBBE SERVITO A MOLTO)
Ho letto il recente libro del professore ucraino Serhii Plokhy The Last Empire - The final days of the Soviet Union. Mi ha colpito il desiderio di James Baker — forse l’ultimo dei grandi segretari di Stato americani — di mettere in piedi durante i mesi finali dell’Urss una specie di «Piano Marshall» di assistenza economica e di forte impegno per assicurare una transizione e un futuro democratico al popolo sovietico uscito «sconfitto» dalla Guerra fredda. Non se ne fece nulla, in parte per la crisi economica americana di fine 1991 (che costò la presidenza a Bush), ma anche per un certo isolazionismo e una convinzione del popolo americano che non vedeva nel collasso dell’ Urss un tema di interesse strategico per gli Usa. Che peccato! Forse adesso avremmo una Russia più legata all’ Occidente, anziché incomprensioni e rischi geopolitici.
Emilio Voli
Emilio.Voli@apax.com
Caro Voli,
L’ idea di un Piano Marshall per l’Unione Sovietica era già stata prospettata dal presidente del Consiglio italiano in un discorso pronunciato Mosca nell’ottobre del 1988. Ma né gli italiani né gli americani sembravano rendersi conto che di tutte le espressioni utilizzabili per descrivere gli aiuti economici all’Urss nella difficile fase delle riforme gorbacioviane, «Piano Marshall» era la peggiore. Le due parole avevano allora, sui due lati del sipario di ferro, significati opposti. A occidente evocavano gli importanti stanziamenti che gli Stati Uniti avevano messo a disposizione dell’Europa per la sua ricostruzione dopo la fine della guerra. A Est erano sinonimo di imperialismo americano. Quando il governo della Cecoslovacchia (un Paese occupato dall’Armata Rossa) sembrò disposto ad accettare gli aiuti americani, Mosca la richiamò immediatamente all’ordine.
Ma il problema — se convenisse aiutare Gorbaciov e in che modo — esisteva e doveva essere affrontato. Fu garantita all’Urss l’apertura di una linea di credito per la somma di sette miliardi di dollari; ma le aperture di credito giovano soprattutto all’intercambio commerciale e l’Unione Sovietica in quel momento aveva altre esigenze. Agli inizi del 1991 (l’anno cruciale per le sorti dell’Urss), la sede migliore per affrontare la discussione era il vertice annuale del G7, il club informale fra i sette maggiori Paesi industriali (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) che si sarebbe tenuto a Londra in luglio.
Francia, Germania e Italia erano i Paesi maggiormente interessati ad aiutare l’Urss, e i loro leader dell’epoca (François Mitterrand, Helmut Kohl, Giulio Andreotti) fecero pressioni sul primo ministro britannico John Major perché, nella sua veste di padrone di casa, invitasse anche Michail Gorbaciov, allora non più soltanto segretario del Partito comunista, ma anche, dal 15 marzo del 1990, presidente dell’Urss. Gorbaciov fu invitato e partecipò al vertice, ma tornò a casa senza gli aiuti desiderati. Lei ricorda giustamente la crisi fiscale americana del 1991, ma occorre anche ricordare che l’Europa, in quei mesi, si apprestava a sopportare gli effetti dei costi dell’unificazione tedesca.
Mi chiedo però se l’Urss, in quel momento, fosse in grado di fare buon uso di eventuali aiuti europei. Il grande Stato sovietico aveva già cominciato a sfaldarsi e scomparirà con le dimissioni di Gorbaciov il 25 dicembre 1991.
Sergio Romano, Corriere della Sera 22/10/2014