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 2014  febbraio 03 Lunedì calendario

I TETTI DI ROMA RACCONTANO

Capita, sfogliando un libro, di scoprire il punto di vista del gabbiano. Capita con il bel volume intitolato «I tetti di Roma raccontano», scritto e disegnato da Franco Bevilacqua (ed. Arte’m). Giornalista, grafico, illustratore e vignettista, Bevilacqua si è avventurato per tetti, abbaini, altane e terrazze, chiedendo ospitalità ad amici, conoscenti e persone incontrate per caso. Armato di taccuino, album da disegno e scatola di acquerelli, ha individuato una cinquantina di postazioni, dal Pantheon all’Accademia di San Luca, da Borgo Pio a San Salvatore in Lauro, da piazza Mattei a Villa Medici, da Sant’Andrea della Valle a via Veneto. E ha disegnato un mare di tetti, tegola per tegola, coppo per coppo, ognuno con le sue sfumature dal rosso all’ocra. E sopra i tetti i comignoli, le torrette, le terrazze fiorite, le cupole, le guglie, i campanili. A un certo punto, su questo ondeggiare di tegole, ci si trova faccia a faccia con un gabbiano. È allora che scatta l’intuizione della città vista con gli occhi dei grandi volatili che la presidiano dall’alto, con ampi giri di ricognizione. Ed è una città diversa, segreta e silenziosa, dove gli umani e le loro automobili si intravedono appena negli scorci delle strade, che appaiono giù in fondo alle prospettive vertiginose dei palazzi. Una visione che in nessun altro modo sarebbe stata possibile senza la matita e i pennelli di Bevilacqua. «L’idea ‘ racconta ‘ mi è venuta ripensando a quando, studente di architettura, mi appostavo negli angoli più suggestivi della città per prepararmi all’esame di disegno dal vero. Ma quegli angoli solitari oggi non esistono più: strade e piazze oggi sono invase da auto, moto, furgoni, autobus, camion, parcheggiati nel più anarchico disordine anche sui marciapiedi. È cambiata la luce, sono saturati gli spazi, sono svaniti gli odori. Abbiamo perso il concetto del bello, ci siamo assuefatti al degrado. Per questo ho lanciato lo sguardo in alto e ho cominciato a incuriosirmi dei tetti. Ho scoperto il mare dei tetti, un mare leggermente agitato, ma mai in tempesta. La vita della città arriva quassù sfumata e si possono ammirare scorci inconsueti, scoprire cortili principeschi, panorami mozzafiato». Mentre disegnava, sono tornate alla memoria dell’artista, nato e cresciuto tra Borgo, Porta Cavalleggeri e Prati, le vecchie storie della Roma popolare e papalina, ascoltate dal padre e da una vecchia zia e ora riportate nelle pagine del libro. Gli sono saltati agli occhi anche particolari da denuncia come quello scoperto mentre dal Giardino degli Aranci ritraeva la veduta del Complesso monumentale del San Michele a Trastevere, che oggi ospita vari enti del ministero dei Beni culturali, tra cui l’Istituto centrale del restauro. Ebbene, la facciata del Complesso, che con i suoi 334 metri si dice la più lunga d’Europa e fu progettata da architetti come Carlo Fontana e Ferdinando Fuga, oggi si presenta spezzata da tre tinteggiature differenti. «Non preoccuparsi di ridipingerla nel colore originario - annota Bevilacqua - significa aver perso il senso della bellezza, non avere più, come diceva Petrolini, orrore di sé». L’occhio del gabbiano cattura giù dai tetti altri dettagli. Come il mascherone della fontana in piazza Campitelli, a cui papa Innocenzo XI fece aggiungere delle vistose orecchie d’asino per ammonire i romani che si vi fermavano intorno a chiacchierare, disturbando le funzioni della chiesa di fronte. O come il serpente attorcigliato al bastone di Esculapio, simbolo delle arti mediche, scolpito sulla prua dell’Isola Tiberina. O il disegno della pavimentazione all’angolo di via del Portico d’Ottavia, nel Ghetto, che riproduce i contorni della fontana delle Tartarughe, progettata per questo luogo e poi edificata a piazza Mattei per volere della potente famiglia. E di nuovo lo sguardo sale in alto, rapito dalla spirale del campanile di Sant’Ivo alla Sapienza nella luce rosata del tramonto. «Dai tetti si rimane abbagliati dai tramonti, quando la luce rincorre e accarezza le innumerevoli cupole. Mentre laggiù nelle strade avanza il buio, qui la luce permane, come se non volesse consegnare alla notte tanta bellezza. I tetti sono fuori dal tempo, e per questo si salvano dal nostro tempo».