Sandro Iacometti, Libero 5/11/2014, 5 novembre 2014
LE MANI DEI SINDACATI SUL TFR
Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga. L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993). Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico. Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.