Marco Damilano, l’Espresso 16/12/2013, 16 dicembre 2013
PD, CHI È L’ECONOMISTA FILIPPO TADDEI
«Questo è bravo!», esclamò ammirato Matteo Renzi la prima volta che lo sentì parlare. Una benedizione pubblica dal pulpito privilegiato, il palco della Leopolda. Lo sconosciuto ragazzone di Bologna aveva appena concluso il suo intervento, come parola-chiave da rottamare aveva scelto «il mito dell’anzianità»: «Il mito ha generato una sua retorica, la pazienza, a chi è giovane in Italia non si offrono riforme, si chiede di aspettare...».
Era il 6 novembre 2010, la politica si avvitava tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, negli Scilipoti e nei Razzi, sembra il giurassico eppure era solo tre anni fa, due ragazzi del ‘75 convocarono i loro coetanei nella sconfinata ex stazione fiorentina. Matteo e Pippo, Renzi e Civati, in appena tre stagioni sono arrivati a contendersi la leadership del Pd. La generazione Leopolda va al potere.
Largo del Nazareno, sede del Pd, martedì 11 dicembre, alle nove del mattino i corridoi del secondo piano sono deserti, si è appena conclusa la prima riunione della segreteria Renzi convocata all’alba. Scatoloni, manifesti alle pareti, Filippo Taddei si aggira con un casco in mano. Classe 1976, laurea in economia all’università di Bologna («sono un figlio dell’istruzione pubblica», spiega orgoglioso), dottorato alla Columbia di New York, professore di macroeconomia alla Johns Hopkins University, è la scelta più sorprendente di Renzi, quella che le riassume tutte, il nuovo responsabile economia del Pd, voluto dal sindaco-segretario nonostante la candidatura del professore alle primarie nella lista dell’amico Civati, fili che tornano a intrecciarsi.
Una rivoluzione, in un partito che dalla sua nascita nel 2007 in poi ha affidato la casella-chiave a Pier Luigi Bersani, Stefano Fassina, Matteo Colaninno, nomi che riecheggiano l’antico rapporto del principale partito di sinistra con il mondo del lavoro, inteso come chi già lavora, chi già è garantito, chi ha una rendita di posizione.
Con Taddei a guidare la politica economica del Pd entra per la prima volta in largo del Nazareno la generazione dei trentenni, i nuovi esclusi, i precari, i non tutelati, il quinto Stato che alle ultime elezioni ha voltato in massa le spalle al Pd per rivolgersi al Movimento 5 Stelle, cresciuti nel pieno di una crisi strutturale che dura da anni. «Già dal 2001 al 2007 il reddito medio italiano cresceva meno che in Grecia e Portogallo, la crisi del 2009-2010 ha cambiato il nostro futuro, oltre che il nostro presente. La crisi ci ha ricordato i limiti strutturali di questo Paese e l’urgenza del cambiamento. Il mondo non sarà più quello di una volta, a meno di non ricominciare a cambiarlo», scriveva Taddei in un articolo per l’ “Espresso” nel 2010. Per dire che in questa rivoluzione dei trentenni non c’è nulla di improvvisato.
Generazione mobile. In senso metaforico, ci si sposta sulla Rete con in mano l’iPhone, e in senso fisico, perché tocca muoversi, cambiare casa, cambiare Paese, ingegnarsi tra collaborazioni da quindici euro lorde e consulenze non pagate. Eppure Taddei è un monumento alla solidità, intelligenza rapida come un bit, sorriso coinvolgente e genuinamente largo, emiliano-kennedyano, una buona dose di autostima, di considerazione di sé, il tratto distintivo del renzismo, il ritratto dell’ottimismo in una situazione sempre descritta sull’orlo del baratro. «Sono andato via dall’Italia nel 2000, a 24 anni, sette anni a New York, due delle mie tre bambine sono cittadine americane, sono tornato in Italia per insegnare al collegio Carlo Alberto di Torino e ora alla Johns Hopkins di Bologna. Sono sempre stato un co-co-pro, mai avuto un contratto a tempo indeterminato, sono un prodotto della flessibilità sana, mi rendo conto che in questo Paese è un’eccezione». Un prodotto della globalizzazione del sapere, in mezz’ora di chiacchierata ti cita i fondi pensionistici norvegesi e gli amici delle banche d’affari europee, con una passionaccia per la politica italiana e una formazione tutta fuori dai partiti tradizionali: «La mia prima esperienza è stata nei comitati di Romano Prodi, tra il 1995 e il 1996. Avevo diciannove anni, ricordo l’entusiasmo di quella campagna elettorale ma anche i risultati del primo governo dell’Ulivo, le proposte della commissione Onofri sullo Stato sociale mai realizzate e ancora oggi insuperate, l’euro che è stata una grande conquista del centro-sinistra e che oggi va tutelata, protetta». Lo classificano come liberista di sinistra per i suoi dialoghi con il gruppo Noise from Amerika di Michele Boldrin e Alberto Bisin, ma Taddei si ribella: «Liberista di sinistra, socialdemocratico riformista, sono tutte etichette che non vogliono dire nulla. Destra e sinistra, queste sì valgono, e lì sono schierato».
Alla prima uscita pubblica, in effetti, ha detto qualcosa di sinistra: reintrodurre l’Imu. «In una crisi epocale abbiamo discusso per un anno di tagliare una tassa che costava cinque miliardi e in media 250 euro a famiglia, all’estero mi guardano come un marziano quando lo racconto», spiega. Non è una novità per chi conosce le idee di Taddei. Riassunte in uno slogan che potrebbe essere il manifesto della generazione Leopolda: «Tassare ciò che è immobile per favorire ciò che è mobile». Riecco la mobilità: «Le mie priorità? Ridurre la segmentazione del mercato del lavoro e tagliare le tasse sul lavoro.Vorrei un Pd che parlasse con uguale enfasi della cassa integrazione, che copre un lavoratore su tre come dice Tito Boeri, e dell’universalizzazione dei diritti e delle tutele degli altri due lavoratori che non sono coperti».
Sulla riforma Fornero oggi Taddei non si sbilancia, ma in passato ha appoggiato il progetto di Boeri e di Pietro Garibaldi, un contratto unico a tutele crescenti. Fiducia è il mantra taddeiano che risuonerà nei prossimi mesi in largo del Nazareno. «Il vecchio Pd si fermava a nutrire l’indignazione, il nuovo Pd vuole nutrire la speranza», ha detto durante la campagna per le primarie. E anche: «Un governo di larghe intese di durata incerta è il peggior servizio al Paese». A Renzi ha chiesto una sola cosa, spiega, «continuare a insegnare, per non perdere contatto con la realtà». Come un altro economista arrivato a Roma da Bologna e poi ai vertici dello Stato. Si chiamava Prodi.