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 2014  settembre 06 Sabato calendario

DI ALZHEIMER NON SI PARLA (SOPRATTUTTO IN ITALIA»

Quando ero ragazzino andava di moda dire: spastico, mongoloide, un modo a sfregio per non usare più semplicemente la parola idiota. Erano gli anni in cui nelle scuole entrava il termine handicappati, non più bollati come figli infelici. Oggi nelle conversazioni, nelle chat, persino negli sms, se non si riesce a ricordare qualcosa, o si è saltato un appuntamento, o si è perduto un oggetto, scatta subito la battuta: «Scusa, ho l’Alzheimer». C’è pure un thread aperto sul forum di Spinoza.it, ultrapremiato blog satirico, dove la gente si spreme per trovare guizzi di genialità intorno alla perdita di memoria.

Eppure l’Alzheimer, dal nome del dottore bavarese Aloysius Alzheimer che per primo riconobbe nel 1901 sintomi inediti in una signora ricoverata in un centro a Francoforte, è una malattia seria e non una mera questione di distrazione o smemoratezza. La forma più comune di demenza è diventata un’epidemia. Se ne sono accorti anche gli sceneggiatori di House of Cards, quale migliore banco di prova per lo storytelling: c’è uno scoglio contro cui l’ambizione sanguinaria di Frank Underwood – in cerca di voti utili per la riforma delle pensioni – è costretta ad arenarsi. Quell’argine è la malattia che ha colpito la moglie del deputato Donald Blythe e che non può essere oggetto di baratto nel mercato di Washington: l’Alzheimer.

La prima volta che ho avuto a che fare con l’Alzheimer è stato con mia nonna, una donna di nome Wanda e di cognome Guerra. La malattia ha ridotto a spenta litania questo binomio battagliero e la sua parlantina piena di aneddoti. Poi nel 2008, quando ero al lavoro al desk del Riformista, arrivarono le foto d’agenzia di un Peter Falk smarrito, con l’aria strapazzata, ridotto a vagare per le strade di Beverly Hills in stato confusionale. Falk era scappato di casa, urlava ai passanti, gesticolando come un pazzo. La sagoma del tenente Colombo, nel telefilm un po’ arruffata e sorniona ma nel pieno controllo di sé, era completamente abbandonata, alla deriva, persino incattivita. L’anno dopo è arrivata la diagnosi per mio padre. Adesso so che esistono dei sistemi Gps per rintracciare le sue fughe da casa, quando le smanie si fanno irrefrenabili. So che non esiste un esame che certifichi l’ereditarietà ma solo una probabilità. Ma soprattutto ho scoperto che la perdita cognitiva è solo la facciata dell’Alzheimer dietro cui c’è il disturbo dei comportamenti, molto più violento, vedi Peter Falk. Le foto di molti reportage domestici sulla malattia, con quelle facce rugose e arrese alla demenza, sono paradossalmente foto in tempo di pace. Nella crepa della memoria si infilano deliri, allucinazioni, vagabondaggi.

Mio padre fa parte di quel milione di italiani affetti da demenza. È una stima, i dati non sono mai precisi, ma è bene moltiplicare per tre, coinvolgendo i nuclei familiari, dove la classica famiglia diventa la prima badante, in gergo tecnico caregiver. Si stimano tra questi affetti da demenza almeno 650 mila malati di Alzheimer, la forma più riconosciuta di progressivo decadimento delle funzioni cognitive. Vale a dire incapacità di acquisire nuove informazioni e pianificare gli atti, impossibilità di ricordare fatti della vita recente, perdita della capacità esecutiva, perdita della memoria semantica, incapacità di trovare parole necessarie per qualsiasi discorso. Questo accade perché nel cervello si forma un eccesso di proteina beta-amiloide. Le proteine si aggregano fino a formare placche e fibre aggrovigliate.

Chi può riguardare questa degenerazione? Siamo con il Giappone il Paese più vecchio del mondo e l’irreversibile Alzheimer rappresenta un’emergenza reale proprio perché l’invecchiamento è l’unico fattore certo di rischio, e infatti le donne – più longeve – sono le più colpite. Si sa che si è allungata l’età media, ma pure l’anzianità è cambiata. Un uomo di 70 anni oggi è un senior, come direbbero in azienda, ma non è di per sé un “rincoglionito”, come vorrebbe la vulgata pronta alla battuta feroce sull’Alzheimer. Probabilmente per la fretta di ricollocarsi presso gli elettori suoi coetanei, Berlusconi a maggio disse di esserne malato, ma si riferiva appunto a delle innocue amnesie. Come saremo percepiti noi quando avremo 70 anni?

Mentre in famiglia si andava prendendo confidenza con l’Alzheimer, sui giornali ogni tanto piovevano dichiarazioni roboanti e numeri sempre più clamorosi, non però dall’Italia. Nel 2012 l’investimento di 150 milioni di dollari da parte di Obama per la cura e la prevenzione, nel dicembre 2013 a Londra i leader del G8 dichiarano l’Alzheimer un’emergenza sanitaria mondiale. Cameron usò toni epici: «Non importa dove voi viviate, la demenza ruba le vite e distrugge le famiglie. È per questo che noi siamo qui riuniti e siamo determinati a sconfiggerla». Dall’Italia nessun proclama e nessun ministro presente al G8. Gabriella Porro Salvini, presidente della Federazione Italiana Alzheimer, la racconta così: «La Lorenzin non ha mai risposto alla lettera di invito a firma congiunta nostra e dell’Alzheimer’s Disease International. Ha inviato il direttore del dipartimento della prevenzione del ministero, ma noi non siamo riusciti a partecipare perché dallo stesso non ci è arrivata la lettera di accreditamento».

Sull’Alzheimer i riflettori in Italia sono accesi da poco. Decenni fa si parlava genericamente di arteriosclerosi cerebrale, poi è arrivato il termine demenza, che però è un magma, perché tutte le demenze hanno storie e meccanismi diversi. L’Alzheimer vive di fama riflessa dei grandi numeri globali, quelli italiani non hanno popolarità. In questo vuoto chi si è organizzato sono stati i singoli cittadini, che hanno poi dato vita alle associazioni dei familiari, una galassia di gruppi di volontariato che oggi costituisce l’unica rete di protezione per i malati e le famiglie. La presidente dell’Aima è la tenace Patrizia Spadin, che risponde personalmente al numero verde: «È cambiato tutto rispetto a 30 anni fa, quando l’Alzheimer era noto a uno sparuto numeri di medici, i soli che viaggiavano all’estero. Non si conosceva nulla, neanche le caratteristiche. Adesso la malattia è nota». Idem per Porro Salvini, che per capire cosa fosse successo alla mamma a metà Anni ‘80 cercò di parlarne con altri familiari: «Ho avuto qualche tipo di informazione solo così. D’istinto non ne volevo più sapere, ma poi ho sentito la necessità di dover raccontare la mia esperienza agli altri». Oggi la Federazione raccoglie 47 associazioni. Le famiglie però restano fondamentali: «È difficile che venga fatta la diagnosi al solo malato, non c’è un protocollo come per il cancro e i tumori».

Gli stessi farmaci specifici per l’Alzheimer, gli inibitori dell’acetilcolinesterasi – ovvero Galantamina, Rimastigmina, Donepezil e Memantina – sono in commercio solo dal 2000 (rimborsabili dal 2005). Gli altri farmaci, quelli per i disturbi comportamentali, i cosiddetti neurolettici, sono sul mercato per pazienti psichiatrici, nei bugiardini non c’è scritto demenza, e le difficoltà nella prescrizione non sono poche. Soltanto tredici anni fa, con il progetto Cronos firmato da Rosy Bindi, sono state create le Unità Valutative Alzheimer, le uniche a poter prescrivere quei farmaci e a fare la diagnosi. È stato creato anche un registro di malati, ma tutta l’organizzazione è disomogenea, varia da regione a regione. I centri Uva non sono stati finanziati dal Governo, «ma si basano su risorse esistenti, si appoggiano a ospedali, presidi e Asl» confessa Spadin. «L’assistenza per le famiglie, l’unico modo per contenere il problema, latita: non ci sono fondi da stanziare. La medicina inoltre punta sempre alla guarigione, ma la cura per l’Azheimer non è data solo dalla medicina».

Michele Farina del Corriere della Sera ha iniziato nel 2012 una lunga inchiesta sull’Alzheimer, ma non è stato facile raccontare la malattia in Italia: «Non ci sono standard di cura, variano da regione a regione. È enorme la difficoltà di avere referenti che ti diano un quadro della situazione, è tutto spezzettato. Non esiste una task-force ministeriale a tempo pieno per l’Alzheimer». Neanche il dizionario è certo: non tutte le Uva si chiamano così. Solo a novembre 2014, tredici anni dopo Cronos, l’Iss presenterà il primo censimento su Uva, Centri diurni e Residenze sanitarie assistenziali. Siamo insomma un fanalino di coda rispetto ai grandi piani internazionali.

Il 19 settembre, in occasione della giornata mondiale dell’Alzheimer, l’Associazione Alzheimer Uniti ha invitato in Campidoglio il ministro Lorenzin per parlare del nuovo Piano per le demenze. Al momento però il piano non è ancora firmato, e chissà se lo sarà prima dell’evento. Il piano è stato redatto dal ministero dopo aver chiamato i referenti delle regioni per le demenze e l’Istituto superiore della Sanità. Un lavoro di sette mesi che è sul tavolo della segreteria in attesa di andare alla Conferenza Stato-Regioni. La novità è l’istituzione del Pdta, Percorso diagnostico terapeutico assistenziale, dal medico generale fino agli specialisti. Per il 14 novembre, nell’ambito del semestre europeo, il ministero della Salute ha lanciato un convegno internazionale sulla demenza che verrà comunicato a breve. Sembrerebbe la risposta italiana al G8 londinese. Le associazioni si augurano che il Piano venga finanziato dal ministero, perché «se le linee guida come per Cronos lasciano la scelta alle regioni, queste potrebbero decidere di non spendere. La rete di assistenza odierna è ancora parziale perché ruota intorno ai centri Uva, il ministero delle Politiche sociali non è mai intervenuto». Bisogna fare pressione sulle regioni per una migliore programmazione nell’apertura di servizi, mettere in rete più informazioni e documenti possibile, creare un’anagrafe dell’Alzheimer.

Intanto sono emersi nuovi fattori di rischio, con nomi comuni ad altre malattie ma mai associate all’Alzheimer: diabete, ipertensione, obesità, attività fisica, depressione, fumo, bassa scolarità. Le stime per i prossimi 20 anni parlano di 3 milioni di affetti da demenza. I farmaci anticorpi monoclonari – nuovi, potenti e in azione in America – sono molto costosi, ma probabilmente detronizzeranno quelli attuali. Chi pagherà? Bisogna poi iniziare a parlare di prevenzione, che è l’esatto opposto della condanna.

Lo stigma dell’Alzheimer è una cosa tutta italiana. «Il muro dell’“io ce l’ho” – racconta Farina – non l’ha sfondato ancora nessuno, questa assenza dice qualcosa, è il segno di una realtà sommersa nonostante i numeri». «La verità è che i malati di Alzheimer sono troppi – confessa Porro Salvini – e fanno ancora troppa paura. Manca un testimonial e soprattutto, in Italia, c’è il tabù». La discrezione sui nomi illustri è viziata dal fatto che spesso non sono più in grado di fare dichiarazioni: la diva del cinema , l’allenatore dello scudetto dei miracoli, lo showman, il grande scrittore. Prevale la privacy dei familiari. «Non siamo americani – dice Spadin – non siamo abituati ad avere afflati da coming out. L’Alzheimer viene vissuto spesso come una perdita di dignità e il nostro sistema sociale non fa niente per impedire questo e colmare i vuoti che la malattia lascia. Se ci fosse una rete d’accoglienza ampia, l’atteggiamento sociale sarebbe diverso. Non sono lontane le memorie dei maltrattamenti dei vecchi dementi, da parti di santoni e guru. Oggi sappiamo cosa ci serve, questa è la differenza se scoprissi oggi che mia madre è ammalata».

Insomma l’Alzheimer è per le famiglie ancora una questione privata, mentre per gli altri, i sani, è uno spettro di cui ogni tanto si dà notizia quando muoiono personaggi internazionali come Annie Girardot e Margareth Thatcher. La versione di Barney è un dramma conosciutissimo ma non esiste ancora un equivalente italiano. Tra gli ultimi ci hanno provato l’attore Giulio Scarpati con il libro Ti ricordi la Casa rossa?, il giornalista Flavio Pagano con Perdutamente, Pupi Avati con Una sconfinata giovinezza (tra l’altro il suo peggior flop, per diretta ammissione). Racconti delicati, ma ci vuole una voce forte. Manca quindi chi decida di salire sopra le spalle di questa gigantesca perdita di sé chiamata Alzheimer e ne parli in prima persona. Il ricercatore Richard Taylor lo ha fatto, e l’Alzheimer’s Disease International gli ha affidato il progetto I Can, I Will.