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 2014  agosto 02 Sabato calendario

LA CIECA VIOLENZA IN SCENA SUI RING DI VIA TIBURTINA

Fra qualche ora prenderò parte a un aperitivo. Nel bel mezzo del quale voleranno ginocchiate, tibiate, gomitate. Due lottatori sconvolgeranno gli invitati combattendo bendati fino a che uno non perderà per ko o abbandono. Ma i partecipanti all’aperitivo ancora non lo sanno.
Percorro a piedi una traversa di via Tiburtina. Salgo una scala lurida, aggirando un cancello arrugginito che aumenta l’impressione di stare entrando in uno di quei luoghi abbandonati in cui si tengono gli incontri clandestini. Solo che questo non e un fight club, ma la sede designata per il primo BlindFight. Una nuova pratica in cui gli atleti, bendati, combattono alla cieca per 3 minuti senza guantoni.
Intorno a me stanno montando il ring e i riflettori. Il locale, nella periferia romana, di giorno spazio di co-working per artisti, la sera ritrovo ideale di fighetti che vogliono risultare a tutti i costi originali, sembra una casa sfitta da decenni: tende di pizzo, poltrone damascate, lampadari di lacrime di cristallo impolverati che sprigionano una luce giallastra. Il parquet, rovinato, odora di mojito. Nelle stanze, diventate spogliatoi e depositi di oggetti smarriti, sono ammucchiati cappelli stravaganti e piumini Moncler.
Non so bene cosa aspettarmi. L’amica che mi ha invitato ha detto solo: «Una cosa del genere non tè la vuoi perdere».
Anni fa avevo tentato, invano, di allenarmi seriamente in una palestra di Mma (mixed martial arts, sport in cui non vale tutto, ma quasi). Fallii miseramente, ma i pochi momenti sul ring sono indimenticabili.
«We are what we are when in danger» cantava Terry Reid in To be treated, colonna sonora del capolavoro di Rob Zombie, La casa del Diavolo. Sentirsi significati dal pericolo e dalla sofferenza è un vezzo che spesso possono permettersi solo coloro che, dal pericolo e dalla sofferenza, potrebbero stare lontano. Una fame d’assoluto impossibile da saziare, ma anche da ignorare.
«O si vive o si scrive» è una delle massime più sopravvalutate della storia della letteratura. Basta pensare a D’Annunzio, che della sua vita, tenendo d’occhio la sua morte, ha fatto un’opera d’arte, non con il Vittoriale, ma con il volo su Fiume, in cui perse un occhio nel tentativo di farsi poeta conquistatore. I grandi romanzieri, come i grandi lottatori, hanno personalità anacronistiche e valori che non hanno quasi nessun contatto con la realtà. Che l’agone sia un grande capolavoro o una grande battaglia, nei momenti cruciali finzione e realtà si fondono e danno vita a biografie votate al sacrificio, all’onore, al rispetto, che li condannano a essere uomini fuori dal tempo.
Uno di questi e Gianluca Siciliani (quattro titoli italiani, uno mondiale). Ha l’aspetto regale e ascetico del monaco, un fisico scavato dagli allenamenti, reso elastico dall’esplosione dei colpi. Insieme al fratello, che lo accompagna, ha partecipato all’ideazione del BlindFight, gestisce una delle palestre di muay thai più grandi e prestigiose d’Italia, l’OltreCorpo di Lecce.
«Combattere è una scelta. Il karma è sollecitato dalle scelte. Come direbbe Kierkegaard il dramma è la non-scelta». «Nella nostra palestra –aggiunge il fratello Fabio, pluricampione del mondo, mentre gli benda le mani con le corde – la nostra soddisfazione più grande è vedere ragazzi taciturni che dopo qualche mese di allenamenti riescono a guardare in faccia i professori, che imparano a diventare uomini. Nostra madre ci dice sempre che abbiamo capito molto più di noi stessi combattendo che se avessimo fatto anni di terapia».
Questo legame, fra i due, nel combattimento e nella vita, affonda le radici proprio nella storia familiare. Per il rapporto con la madre, psicoterapeuta e insegnate di filosofia, ma soprattutto con il padre, orfano cresciuto sugli scogli, poi fortunato mercante d’arte. Privo di quello che definiscono «humus culturale borghese conservativo», accumulò opere di Kandinsky e De Chirico, oltre a una collezione di Jaguar, solo per perdere tutto in pochi anni e riempirsi di debiti, finendo a dover cambiare casa e riscaldare la sua famiglia con la stessa bombola del gas che usavano per cucinare.
«Di solito», dicono, «un certo genotipo di donna sceglie un certo genotipo di uomo. Ai nostri non è andata così, siamo un mix di mitopoietica e scogli». Così Gianluca, che da bambino voleva giocare a cricket, parla senza soluzione di continuità del suo libro preferito, che è Lolita di Nabokov, citandone brani a memoria, mentre Fabio, intento nei bendaggi, mi dà piccoli calci sovrappensiero, tamburellandomi con un cutter sulla camicia mentre si affretta a precisare che, al di là del ring, poi la strada è la strada, e visto che a lui hanno più volte puntato addosso una pistola, la prima cosa da fare in strada è cercare armi improprie da usare nella maniera più efficace possibile.
Il suo rapporto col combattimento è viscerale come quello del fratello: «I miei figli hanno un cognome importante grazie alla muay thai. Questa è vanità, certo. Ma questa vanità si annulla al momento dell’incontro. Perché tu sei sempre in lotta con te stesso e coi tuoi limiti. E ogni volta cerchi identità. Cerchi padre. Cerchi conferma. Combatti per rafforzare la parte di te che protegge fino alla fine il bambino indifeso che è dentro di te. Il senso della vita è tentare. È più importante il percorso che arrivare. Molti vorrebbero essere Rocky. Io non voglio essere Rocky. Io voglio vivere».
Mi aggiro per le stanze piene di cavi elettrici e vecchi giocattoli di Guerre Stellari con gambe e braccia mozze. Ritorno nel salone dove il ring circolare, di 3 metri per 3, costruito con balle di fieno, è ultimato. Un barista indiano che indossa guanti da chirurgo di un blu ospedaliero prepara grappoli d’uva e grissini con prosciutto per l’aperitivo. Gli atleti, che non hanno mai combattuto bendati, provano per qualche minuto prima di affrontarsi sul serio.
All’inizio la tensione è solo simulata. Sono bendati, ma non ci credono davvero. «Dai ragazzi, odiatevi un pochino», urla un allenatore. Sparacchiano qualche colpo. Si mancano. Ma a ogni pugno a segno la tensione monta. Un calcio dopo l’altro, il rumore dell’impatto cresce. Però sono solo prove. E guardarli trattenere la forza dei colpi a fatica, come cani costretti ad annusarsi prima di sbranarsi nell’arena una volta chiuse le scommesse, fa venire voglia di entrare e picchiarsi a morte.
Perché siamo bombardati dalla retorica che ogni violenza è un male. Perché, nel 2014, quando la tua donna è in discoteca, a ballare, e le si avvicinano i soliti animali che credono che approcciare con una mano sul culo sia segno di una grande intraprendenza, se dici che li vuoi spazzare via dalla facci a della terra fai la figura del cavernicolo. Perché tutto quello che pensi, e che provi, di fronte al cibo, all’amore, al lavoro, a Dio, sono sentimenti preistorici, e ti è richiesto, in quanto uomo moderno, di fare uno sforzo per renderti presentabile in società almeno come venissi dal Rinascimento. «Perché la guerra è bella, anche se fa male». Ma questo non puoi dirlo a nessuno. E siccome sei troppo pavido, hai troppo da perdere e sei nato in quella parte di mondo in cui oggi, per sopravvivere, non hai bisogno di combattere, usare la foglia di fico dello sport è l’unico modo per poterti spaccare la faccia, ma salvarla davanti alla gente con cui prendi gli aperitivi.
Chiedo di provare anche io. Mi accontentano. Tolgo la camicia e mi faccio bendare da un assistente. Uno dei combattenti mi lascia il posto, ma non so chi dei due è rimasto. Entro nel ring a tentoni. Inciampo e mi mantengo in equilibrio a fatica, «un minuto» urla uno degli organizzatori. «Non ti trattenere solo perché è un giornalista», grida qualcuno. «Non sono un giornalista», grido, ma prima di poter precisare «sono uno scrittor...» un pugno di striscio mi chiude la bocca. Sono disorientato. Sto gobbo, cerco di ridurre la superficie colpibile, ma è ovviamente peggio. Due calci alla gamba sinistra e cado all’indietro. Mi rialzo. In bocca il sapore ferruginoso del sangue, come quello di quando mastichi per sbaglio la carta stagnola che avvolge un panino. Combatto quasi in apnea perché se respiro non sento l’avversario. I colpi che incasso mi rassicurano perché al meno so dov’è l’altro. I momenti in cui nessun colpo va a segno sono i più spaventosi perché non so cosa aspettarmi, né da dove.
Ci interrompe l’arrivo del catering. L’odore della focaccia al formaggio si fondie con quello acre della paglia. Raggiungo ansimando l’altro sfidante. Stravaccato su un divano in pelle logora da cui la gommapiuma gialla esce e si polverizza, lo spagnolo Aldo Rodriguez Navas (due titoli spagnoli, un europeo) ha un look molto più tamarro. Tatuato, con la cresta, pesa quasi 20 kg più del suo avversario. «Da quando ho scoperto la thai sono stato nove volte a studiare là in Thailandia. È veramente difficilissimo lottare bendati. Ma jo combatto ovunque. Basta che mi pagano la borsa. Jo ho iniziato per farmi respettare in un momento della mia vita in cui non respettavo nessuno. Ahora dopo anni di encontri, respetto todo il mundo indipendentemente dal sexo, dall’età y dalla religione. La disciplina mi da sicurezza mi da ordine e essere preciso e regolare nella vita. Se uno mi rompe le palle nei locali io mi giro e me ne vado. Pero te dico una cosa. A mi mi puoi fare quello che vuoi. Io ho mia muglie, mia madre, e mi perro. Se mi toccano qualcosa di questo divento pazzo».
Non ha il retroterra intellettuale dei fratelli Siciliani, ma sentirlo parlare, con la cadenza madrilena, ha comunque qualcosa di filosofico: «Jo non odio mai l’vversario. Il contrario. Gli voglio bene. Perché me da l’opportunità di combatere e guadagnare soldi. Poi quando sei sul ring possono capitare due cose: o lo vuoi ammazzare oppure ti fai piccolino piccolino. A me capita la prima cosa. Ma la scarica di adrenalina finisce lì quando suona la campana. Non odio nessuno io. E ho grande onore per il mio avversario. Jo ho soltanto voglia de combattere. Perché me piace. Me piace finire il combattimento. Me piace abbracciare il mio avversario. È una disciplina durissima. Guarda la mia faccia. Quando arrivo a 100 punti me danno un iPhono. Il combattimento non è solo il ring. È la dieta. Gli allenamenti. Il non uscire. C’è gente, come quelli là – dice indicando gli elettricisti – che gli piace giocare con le luci. A mi mi piace giocare col combattimento. La vita è una. E bisogna cercare di fare quello che ami. Io sono molto fortunato. Faccio lo stesso lavoro di Dekker “The Diamond”, il più forte di sempre. Lui era un idolo. Ma la mia filosofia di vita è questa: Allena te ogni giorno finché i tuoi idoli diventano i tuoi sfidanti».
La sala adesso è piena. Tra il pubblico, decine di ragazzini depilati, con magliettine scollate e camice alla coreana, gente di Vice che dice «Ma se li bendano non rendono tutto più difficile?», un etologo che parla dell’eleganza dei combattimenti fra galli e uno stuolo di fighe bionde che arrivano tutte insieme, tanto che la mia amica mi sussurra: «Credo che di mestiere facciano le fighe che vanno alle feste».
Mancano pochi minuti all’inizio del combattimento. Dietro le quinte gli atleti sono separati dal buffet del dopo incontro. I loro preparatori li spalmano di balsamo di tigre che diffonde intorno un odore simile al Vicks Vaporub. Risuonano urla di autoincitamento e fruscii di colpi a vuoto.
Entrati sul ring, il rito del bendaggio è sacrale. Sembrano condannati alla fucilazione. Il pubblico continua a far tintinnare i bicchieri. Le fighe ridono senza sosta. Gli hipster non smettono di smanettare con gli i Phone.
Quando i colpi, resi taglienti dalle corde, fanno spillare sangue dai volti e dai corpi dei due, si crea finalmente un attimo di silenzio. Clhe subito si rompe.
Per esorcizzare il disagio e l’inadeguatezza di fronte alla lotta montano, fra la gente seduta, sorrisini forzati che vorrebbero far credere che tutto va bene, quando, per fortuna, non tutto va bene.
Prima che termini l’incontro chiudo gli occhi. E sogno un grande kaboom pacificatore.