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 2014  agosto 03 Domenica calendario

«INUMANO CHIEDERE PIÙ DEL DOVUTO» COSÌ I PAPI SCOMUNICANO LE TASSE


Rossella Orlandi, il nuovo direttore dell’Agenzia delle entrate, ha esordito con una gaffe: «In Italia sanatorie, scudi, condoni, sono pane quotidiano. Siamo un Paese a forte matrice cattolica, abituato a fare peccato e ad avere l’assoluzione».
Parole che hanno indignato Libero e suscitato l’ovvia reazione dei cattolici a cui ha dato voce Avvenire. E proprio con una lettera al quotidiano dei vescovi la Orlandi si è scusata per la «battuta ironica», spiegando che «era indirizzata a tutti coloro che non rispettano le leggi ma confidano sempre in una sanatoria o in un condono per espiare i propri comportamenti scorretti. Nessun riferimento, quindi, ai princìpi solidaristici della cultura cattolica che hanno sempre ispirato i miei comportamenti e la mia vita. Mi scuso se le mie parole possano aver creato fraintendimenti o aver urtato la sensibilità di qualcuno».
Può essere che la Orlandi sia stata fraintesa. Può capitare e non è il caso di farne una tragedia. In fondo lei ha solo ripetuto un luogo comune che è davvero radicato, nella pubblicistica liberal, per la quale il cattolicesimo avrebbe corrotto il carattere nazionale degli italiani.
Si ritrova questo pregiudizio già nella Storia delle Repubbliche italiane del medioevo dello storico ed economista svizzero, calvinista, Sismondo de’ Sismondi (1773-1842).
Gli rispose il nostro Alessandro Manzoni con un’opera formidabile, le Osservazioni sulla morale cattolica, dove intese dimostrare che lungi dall’essere «cagione di corruttela per l’Italia» la morale cattolica era «la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte» e che «ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla o dall’interpretarla alla rovescia».
Manzoni portò molti argomenti storici, a cominciare dal fiume di sante e santi generati dalla Chiesa, uomini e donne che non hanno eguali quanto a moralità, ardente carità, rigore ascetico ed eroismo. Uomini e donne che, anche con le loro opere, hanno dato forma alla nostra storia e alla nostra civiltà.
Più banalmente mi permetto anche io di proporre un argomento “storico” o cronachistico per confutare la “teologia” del fisco.
Siamo proprio sicuri che l’« Italia cattolica» sia la patria dell’evasione fiscale? Che succede, per esempio, nella rigorosa, laica e luterana Germania?
Tempo fa, in una ricerca dell’Università di Linz e della Visa, è emerso che in termini assoluti la Germania è il Paese europeo che ha la più vasta area di economia sommersa: è stata valutata circa in 350 miliardi di euro, ovvero il 13 per cento del Pil tedesco (nel periodo della crisi teutonica, attorno al 2003, il “nero” era valutato perfino di più, circa 370 miliardi). E sono circa 8 milioni i cittadini tedeschi che lavorano in nero.
Sarebbe meglio, perciò, che esattori e politici lasciassero stare la teologia. E casomai ascoltassero davvero chi di teologia morale è un grande esperto.
Come il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, il quale tempo fa, celebrando la messa per la Guardia di Finanza nel giorno del suo santo patrono, san Matteo, spiegò alcune cose preziose.
Il cardinale aveva già sottolineato che è un dovere morale oltreché legale pagare le tasse. Tuttavia, con una pressione fiscale che in Italia, nel 2013, ha raggiunto il livello del 54 per cento del Pil (a cui va aggiunto l’aumento dell’Iva), il record fra le economie più sviluppate, Caffarra ha sottolineato che pure lo Stato, come gli evasori, viola il «patto sociale».
Per esempio quando impone un abnorme livello di pressione fiscale, specie in un tempo di crisi come quello attuale in cui «la tassazione è talmente elevata da rendere impossibile la tutela e la promozione di beni umani fondamentali, quale il lavoro».
Poi ci sono gli sprechi. «Lo Stato», afferma il cardinale, «viola il patto sociale e diventa ingiusto se la spesa pubblica, cioè l’uso di quanto i cittadini hanno versato al fisco, è esorbitante». Ma lo Stato viola il patto sociale anche quando «non rende i servizi» o li fornisce «di pessima qualità» perché «il cittadino ha il diritto di avere quei servizi pubblici in ragione dei quali paga le tasse».
Con una differenza: se il cittadino viola le regole ha a che fare con la giustizia, se lo Stato tradisce i suoi «gravi doveri» verso i cittadini non succede niente.
Il nesso doveroso fra le tasse pagate e i servizi da erogare è anche il principio di ogni Stato liberale. Perché la tassa non è un tributo che il cittadino deve allo Stato «a prescindere».
Lo Stato non può essere lo Sceriffo di Nottingham che taglieggia i sudditi, o l’antica, crudele divinità pagana che pretende sacrifici umani.
La tassazione è parte di un «patto sociale» che deve avere una contropartita in servizi efficienti. Per questo è del tutto assurda ed inaccettabile l’idea che lo Stato «a prescindere» abbia diritto di tassare certi cittadini perché «ricchi» e per questo da punire.
Eppure questa è la mentalità dominante soprattutto a sinistra. Non a caso nel gergo giornalistico, quando arriva il tempo delle stangate (e arriva sempre), si dice che verranno «colpiti» questi o quelli.
Come se lo Stato avesse il diritto di «colpire» qualcuno, come se i cittadini fossero sudditi e non sovrani (così ci definisce la Costituzione). Come se l’aver prodotto ricchezza fosse una colpa, anziché un merito che poi genera benessere per tutti. Sia perché produce lavoro, sia perché col criterio della progressività della tassazione contribuisce più di altri (e questa si chiama solidarietà).
È lo Stato a fare le leggi, anzitutto quelle fiscali, ma secondo la Chiesa non è affatto detto che una norma, solo perché è legale, sia automaticamente anche giusta e morale. Perché prima dello Stato c’è la legge naturale e le persone hanno diritti naturali che lo Stato non può violare.
Esso non ha un potere illimitato e assoluto sui cittadini e sui loro beni. Per questo il Magistero della Chiesa, pur avendo sempre richiamato al dovere di pagare le tasse, ha anche tuonato contro gli Stati che pretendono di tassare i cittadini oltre i giusti limiti. Così dissanguandoli.
Leone XIII, nella Rerum novarum che inaugurò, nel 1891, la presenza sociale dei cattolici, scrisse: «La privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana, ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte».
Quarant’anni dopo Pio XI tuonò: «[Dichiariamo] non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata, da renderla quasi stremata» (Quadragesimo anno).
E Pio XII nel 1948: «Astenetevi da queste misure [tributarie] che, a dispetto della loro elaboratezza tecnica, urtano e feriscono nel popolo il senso del giusto e dell’ingiusto, o che rilegano la sua forza vitale, la sua legittima ambizione di raccogliere il frutto del suo lavoro, la sua cura della sicurezza familiare: tutte considerazioni, queste, che meritano di occupare nell’animo del legislatore, il primo posto anziché l’ultimo».
Lo stesso Pio XII nel 1956 aggiunse: «L’imposta non può mai diventare, per opera dei poteri pubblici, un comodo metodo per colmare i deficit provocati da un’amministrazione imprevidente».
Mi è capitato di trovare in diversi siti cattolici, sulla rete, un’antologia di questi pronunciamenti. Che in fin dei conti non mirano solo a proteggere i risparmi e i beni delle famiglie, ma la stessa libertà personale. E a prospettare uno Stato leggero (valorizzando la sussidiarietà) ed efficiente.
Sarebbero i capisaldi per una seria presenza politica liberale e cattolica e per il rilancio vero dell’economia. Gli italiani che ne sentono il bisogno sono tanti. Ma le forze politiche che rappresentano davvero queste idee quali e dove sono?