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 2014  agosto 03 Domenica calendario

TURCHIA E QATAR, RUOLO DECISIVO PER IL NUOVO PROCESSO DI PACE


L’ANALISI
«Ogni vittoria è soltanto il prezzo d’ammissione a un problema più difficile». Questa frase di Henry Kissinger, il diplomatico americano più machiavelliano dei nostri tempi, può servire a guardare realtà e prospettive all’indomani della guerra di Gaza che potrebbe essere vicina alla sua conclusione.
Per l’ennesima volta, parti della “striscia” sono state devastate e la sua popolazione profondamente ferita, mentre in Israele nuove paure e rabbia hanno rafforzato chi rifiuta il dialogo di pace e respinge il concetto stesso di stato palestinese indipendente accanto a Israele. Hamas uscirà militarmente sconfitto dalla guerra ma dirà ai palestinesi di aver tenuto duro contro uno degli eserciti più forti del mondo. E Israele, quando completerà la distruzione dei tunnel e delle rampe di lancio dei missili, dirà di aver creato un ambiente più sereno per i propri cittadini. Due finte vittorie. E poi? Il futuro dipende da molti fattori e anche da molti attori nuovi.
I NEGOZIATI
Netanyahu e i suoi generali hanno deciso di creare una specie di fascia di sicurezza all’interno di Gaza lungo il confine per impedire infiltrazioni mentre l’aviazione «se necessario» interverrà dall’alto contro chi lancia missili. Il premier insiste per la smilitarizzazione di Gaza. I palestinesi vogliono la fine del blocco della “striscia” e la ricostruzione. In teoria queste cose sono possibili ma per riuscire a trovare le formule giuste e durare nel tempo, i non facili negoziati dovranno andare ben oltre i previsti colloqui al Cairo dove il mediatore, il presidente al-Sisi, odia Hamas più di quanto il movimento islamico non sia odiato da Israele. In questo contesto, le divergenze regionali (tra sciiti e sunniti, tra laici e islamisti) che stanno ridisegnando la mappa delle alleanze in Medio Oriente potrebbero servire per aggravare la situazione. Oppure per rilanciare un vero negoziato di pace israelo-palestinese.
Non uno sforzo bilaterale come quello fallito nonostante la mediazione del segretario di Stato americano Kerry ma piuttosto all’interno del vecchio piano dell’Arabia saudita per la fine del conflitto e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo.
Dove si comincia? Unione europea, Usa ed Egitto dovranno convincere Netanyahu a rafforzare il presidente palestinese e quel progetto di riunificazione delle fazioni palestinesi che il premier ha finora osteggiato al punto di definire lo statista di Ramallah «parte del problema» invece di riconoscere in lui «parte della soluzione del problema».
I VARCHI
Alla guardia presidenziale di Abbas saranno affidati il varco Gaza-Egitto (sotto l’occhio vigile dei servizi segreti di Tel Aviv) e quelli con Israele, come primo passo per alleggerire l’assedio. Disarmare l’ala militare di Hamas e la Jihad islamica non sarà facile e ha qualche speranza di riuscire soltanto nel quadro di un accordo politico intra-palestinese che restituisca all’Autorità nazionale (e alla sua polizia) il governo della “striscia”.
Perché ciò possa succedere, dovranno essere d’accordo due importanti alleati americani che hanno finora remato contro la stabilità regionale. Turchia e Qatar sono i grandi sostenitori e finanziatori dei Fratelli musulmani e nelle ultime settimane hanno appoggiato le richieste di Hamas e boicottato gli sforzi di mediazione egiziana, una ripicca nei confronti del suo presidente reo di aver messo fuori legge il movimento islamico e demolito i tunnel (per il contrabbando) che collegavano il Sinai a Gaza. Se vogliono, l’emirato e il grande paese islamico ma non musulmano hanno gli strumenti (anche economici) per convincere i dirigenti di Hamas a rinunciare alla lotta armata, come continua a chiedere Mahmoud Abbas consapevole della sua inutilità, o peggio, nei confronti d’Israele e di chi in quel paese vuole un compromesso.