Telmo Pievani, Corriere della Sera - La Lettura 3/8/2014, 3 agosto 2014
SALVIAMO GLI INSETTI O SARÀ TARDI PER L’UOMO
Grandi evoluzionisti ed esperti di biodiversità come Edward O. Wilson e Niles Eldredge lo avevano scritto vent’anni fa: considerando i ritmi vertiginosi di scomparsa delle specie indotti dalle attività umane negli ultimi secoli, la biosfera sta attraversando un’«estinzione di massa», cioè una catastrofe su scala globale. Per la precisione la sesta estinzione di massa, dato che nel lontano passato geologico se ne sono registrate almeno cinque, le cosiddette Big Five , grandi ecatombi causate da super-eruzioni vulcaniche, da oscillazioni climatiche e cambiamenti nella composizione dell’atmosfera, da impatti di asteroidi sulla Terra, o da un intreccio di questi fattori. L’ultima è quella che 65 milioni di anni fa spazzò via buona parte dei dinosauri (tranne uno sparuto drappello che si è poi evoluto negli uccelli) e quasi due terzi di tutti gli altri esseri viventi. Per velocità di impatto e mortalità — sostennero Wilson e colleghi — l’estinzione prodotta dall’uomo oggi non ha nulla da invidiare alle precedenti.
La tesi era fondata su statistiche imprecise e molti l’accolsero come una provocazione esagerata, un cedimento al catastrofismo. In fondo la Terra è ancora abitata, si stima, da almeno cinque milioni di specie animali. Nel 2011 accade però che un team internazionale di Berkeley, guidato da Anthony D. Barnosky, verifica le stime di estinzione, integra dati paleontologici e attuali, considera tutte le cautele del caso e giunge a una conclusione, pubblicata su «Nature», alquanto preoccupante: la sesta estinzione di massa non è ancora in corso, ma ci manca poco e stiamo facendo di tutto per arrivarci. Adesso da «Science» giunge purtroppo la conferma.
Secondo i nuovi e più raffinati calcoli del gruppo di Rodolfo Dirzo, del dipartimento di Biologia di Stanford, gli impatti umani sulla biodiversità animale sono diventati una forma di cambiamento ambientale globale, che ben presto avrà ripercussioni sulla nostra salute. Il pianeta non è più lo stesso e i parametri peggiorano. L’analisi questa volta non riguarda solo la scomparsa di intere specie, ma anche gli andamenti locali delle popolazioni negli ultimi decenni. 322 specie di vertebrati terrestri si sono estinte dal 1500 a oggi, altre centinaia sono in via di estinzione (circa un terzo del totale) e per tutte, mediamente, si assiste a un calo del 28% nelle popolazioni. Va ancora peggio per gli invertebrati, due terzi dei quali hanno subito un declino del 45% nella loro abbondanza negli ultimi quarant’anni. Gli insetti, per noi icona di diversità e di resistenza, si associano al crollo: un terzo sono in calo; farfalle e falene sono diminuite del 35%; per api e coleotteri la situazione è ancora più grave.
Perdiamo ogni anno dalle 11 mila alle 58 mila specie, concentrate soprattutto nelle regioni tropicali. Estinguiamo specie che nemmeno abbiamo fatto in tempo a classificare. Il termine tecnico coniato per questo fenomeno è «defaunazione dell’Antropocene». Entra così nel gergo scientifico ufficiale il nome finora informale di Antropocene, usato per l’attuale epoca «geologica», in cui una specie sola, Homo sapiens , è riuscita in una manciata di secoli ad alterare la composizione gassosa dell’atmosfera e a trasformare la superficie del pianeta.
La diversità è il combustibile dell’evoluzione: se scarseggia, il motore del cambiamento si inceppa. Le cause della sesta estinzione di massa sono molteplici. Interagiscono fra loro questi fattori: la deforestazione e la frammentazione degli habitat (quasi tutti i grandi mammiferi hanno perso mediamente la metà del loro spazio geografico naturale); la diffusione di specie invasive tramite viaggi e trasporti; la crescita della popolazione umana; l’inquinamento da attività agricole e industriali; lo sfruttamento intensivo con la caccia e la pesca. Un cocktail micidiale per le faune. A queste cinque attività antropiche bisogna ora aggiungere gli effetti pervasivi del riscaldamento climatico, che cominciano a farsi sentire in particolare sugli uccelli migratori. I fattori poi si moltiplicheranno a vicenda, perché un pianeta con meno biodiversità, dominato da poche specie opportuniste e infestanti che hanno perso i loro predatori, è a sua volta più vulnerabile. Le specie di grandi dimensioni sono le più esposte e la loro scomparsa ha effetti a cascata sull’intera rete ecologica.
Ma perché dovremmo impegnarci nella conservazione di un insetto o di un verme nematode? Il dibattito è aperto da anni. Molti scienziati pensano che la biodiversità abbia un valore in sé: estetico, emotivo, etico. È un bene comune da difendere e non ha prezzo. Alla domanda «che fare?» altri rispondono invece che quelli ambientali sono interventi costosi e in tempi di crisi è irrealistico pensare di agire per salvare ogni creatura in pericolo e ripopolare foreste e savane. Il calcolo economico andrebbe però rivisto, poiché dalla biodiversità dipende la salute degli ecosistemi, e dagli ecosistemi derivano beni e servizi che sono gratuiti ed essenziali per la nostra sopravvivenza (dispersione dei semi, cicli dei nutrienti, fertilità dei suoli, decomposizione, qualità dell’acqua e dell’aria).
Un esempio fra tanti: il 75% delle colture alimentari del mondo dipende da insetti impollinatori. La sparizione di una popolazione di pipistrelli, predatori naturali degli insetti nocivi, può creare localmente danni economici enormi. In quanto mammiferi di grossa taglia, ci commuoviamo giustamente dinanzi all’estinzione di tigri, rinoceronti e panda, ma è la silenziosa moria degli invertebrati e delle microfaune, invisibili a occhio nudo, a doverci preoccupare di più. Dai più carismatici come leoni ed elefanti (il cui tracollo procede a velocità drammatica) a una minuscola ranocchia (gli anfibi sono i più sensibili, con il 41 per cento di specie minacciate), la perdita complessiva di animali altera la struttura e le funzioni degli ecosistemi dai quali dipende il nostro benessere. Intervenire dopo sarà molto più dispendioso.
Il tempo profondo insegna che l’estinzione di massa dei dinosauri fu una straordinaria occasione per i mammiferi, che ereditarono il pianeta e si diversificarono in nuove forme, compresi i primati e fra loro l’Homo sapiens . Siamo i figli della fine del mondo degli altri. Ora rischiamo di creare le stesse condizioni critiche di allora. È un paradosso la cui soluzione è resa ardua da due ostacoli, uno politico e uno psicologico: la difficoltà di coordinamento e l’incapacità di lungimiranza. Una singola nazione può fare poco, se quelle attorno non collaborano. Le dinamiche ecologiche non rispettano i tempi stretti delle campagne elettorali, ma potrebbero poi presentare il conto senza preavviso. Se non vogliamo lasciare il pianeta più povero di come lo abbiamo trovato, una buona pratica di salvaguardia messa in opera oggi darà i suoi frutti fra un paio di generazioni. Certo, non è facile investire denaro e prendere un impegno etico a favore di qualcuno che ancora non esiste, ma bisognerà armarsi di immaginazione e provarci. Tutto sommato, potrebbe essere un modo intelligente per differenziarci dai dinosauri.