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 2014  agosto 03 Domenica calendario

GLI OGGETTI DISOBBEDIENTI [8

pezzi] –

La storia raccontata da una tazzina, da un cappello frigio arancione, da una rudimentale maschera antigas, da una spilla. Oppure dall’irridente parodia di un manichino, di una jeep, di una bicicletta. Negli ultimi quarant’anni le proteste, gli scontri di piazza, le grandi manifestazioni popolari qualche volta hanno vinto, più spesso hanno perso. Ma sempre, o quasi sempre, hanno lasciato un segno materiale, qualche oggetto simbolo.
Una mostra a Londra, ospitata al Victoria and Albert Museum, li raccoglie sotto il titolo di Disobedient Objects , gli oggetti disobbedienti. L’esposizione, aperta fino al 1° febbraio 2015, compatta in due vaste sale un potente concentrato di idee politiche, impennate artistiche, strumenti — utensili, si potrebbe dire — della guerriglia metropolitana. Su uno schermo alla parete passano le immagini della storia mondiale più recente: gli scontri tra giovani palestinesi e militari israeliani, le manifestazioni disperse dai lacrimogeni e dai manganelli della polizia in Grecia, in Italia, in Spagna. Quante vicende, quanta rabbia. Su un computer sono riprodotti i continenti del mondo e tante piccole luci si accendono e spengono vorticosamente: seguono il flusso degli anni e indicano dove sono cominciati e poi finiti i movimenti.
Si parte con la fine degli anni Settanta: Stati Uniti, Europa, anche Sud America, ma complessivamente pochi lampi. Poi la rete si infittisce nel decennio tra gli Ottanta e i Novanta (il Sudafrica, la Cina). Ma gli ultimi 10-15 anni sono una fibrillazione continua, la plancia luminosa sembra impazzire: i no global e le Primavere arabe, gli Indignados spagnoli e «Occupy Wall Street».
La mostra del Victoria and Albert Museum cataloga con scrupolo da archivista e con precisione didascalica mezzo secolo di cultura e politica fuori dagli schemi. Si entra accompagnati da una variazione sul tema: le tazzine da tè con il simbolo dell’Unione sociale e politica delle donne, usate nella campagna per il suffragio universale in Inghilterra all’inizio del Novecento. Poi si salta ai manichini neri creati nel 1991 dal Bread and Puppet Theatre, un collettivo teatrale fondato a New York nel 1962 e oggi con base a Glover, nello Stato nordoccidentale del Vermont. Lo slogan «pane e cultura» percorre i movimenti di protesta negli Stati Uniti dal Vietnam fino agli anni Novanta. Pari dignità, solidarietà, democrazia, trasparenza, accesso per tutti ai più alti gradi dell’istruzione. Il percorso tra gli «oggetti disobbedienti» segue questo cammino. Diventa naturale, allora, trovare le rudimentali maschere antigas costruite dalla piazza di Atene nei giorni della grande crisi economica del 2008-2010, accanto al berretto di stoffa arancione calzato dagli anticomunisti polacchi nel 1988. Le spille dell’anti-apartheid sudafricano sono ancora oggi belle, colorate, moderne. L’ultima esposta, The People’s Choice , mostra il sorriso del vecchio Mandela, il più grande dei disobbedienti evocati. Ed è forse questo minuscolo oggetto la cosa migliore, la più emozionante.
Giuseppe Sarcina

BARCELLONA 2012 IL CUBO GIGANTE SEMBRA DI PIETRA MA È GONFIABILE –

Tra la fine degli anni Novanta e l’autunno del 2001 i movimenti no global raggiungono il picco del consenso negli Stati Uniti e in Europa. Diverse sigle, organizzazioni più o meno spontanee si aggregano nelle grandi manifestazioni in occasione dei vertici internazionali, come il G8. È anche il momento in cui trovano spazio i segmenti più violenti e distruttivi, come i Black Bloc. Gli obiettivi: la guerriglia con la polizia e la devastazione delle vetrine, soprattutto quelle delle banche o delle società finanziarie. La reazione delle forze dell’ordine, un po’ in tutti i Paesi, è veemente. Negli ultimi 10-15 anni la polizia si presenta nelle strade con equipaggiamenti e mezzi sempre più sofisticati. Durante le proteste che hanno segnato la grande crisi, nel biennio 2010-2011, Atene, soprattutto, ma anche Madrid, Lisbona e Roma hanno vissuto giornate di scontri prolungati e di violenza. Ma nel febbraio 2012 un gruppo di attivisti di Berlino, riuniti nell’Eclectic Electric Collective, suggerì agli organizzatori dello sciopero generale a Barcellona di portare nei cortei e lanciare contro la polizia dei giganteschi cubi grigi gonfiabili. Il sasso di plastica, un metro e mezzo per un metro e mezzo, sconcertò i tutori dell’ordine, con qualche effetto comico visibile nei filmati proposti dalla mostra. Per quella volta la manifestazione terminò senza incidenti e anzi con una partita di massa a pallavolo. I giovani di Berlino si definiscono fautori della tactical frivolity. Un modo per disobbedire anche con allegria.


ROMA 2010 ABBASSO I TAGLI: SPINOZA E MILLER UNITI NELLA LOTTA –

Petronio, Boccaccio, Spinoza, Morante, Machiavelli, Miller, Deleuze. Tutti in piazza con gli studenti di Roma, nel dicembre 2010. La fantasia degli attivisti trasforma lo scudo nel simbolo più eloquente della protesta. Nell’autunno-inverno di quell’anno, scuole superiori e università sono di nuovo in agitazione. In Italia le misure del governo guidato da Silvio Berlusconi, a Londra quelle progettate dal nuovo esecutivo di David Cameron sono contestate da un numero crescente di giovani. Nelle città italiane c’è un collegamento con il movimento dell’Onda, che raggiunge il culmine nel settembre del 2008, quando il titolare dell’Economia, Giulio Tremonti, progetta i tagli lineari al bilancio dello Stato, comprese le voci che toccano la scuola. «Con la cultura non si mangia», disse il ministro per giustificare la necessità della manovra. Forse da lì, da quella polemica, nacque la risposta dei manifestanti. Due anni dopo, ancora in un clima di restrizioni di bilancio, gli studenti e i centri sociali si presentano al cospetto dei cordoni di polizia, con il casco e lo «scudo letterario». Nelle assemblee si discute sui titoli dei libri e alla fine si vota direttamente o si rimanda il giudizio a una consultazione online. Le scelte, però, toccano quasi sempre i classici della letteratura, della filosofia. Come se la protesta contro i tagli chiamasse in soccorso la tradizione e i fondamenti della cultura europea e non solo. Con l’aggiunta, è chiaro, della onnipresente Costituzione italiana.

BUENOS AIRES 2001 ADDIO PRESIDENTE LE CASSERUOLE SUONANO PER TE –

In Argentina bastarono le pentole per mandare via il presidente. Anno 2001, la crisi economica del Paese è drammatica. All’inizio del mese di dicembre il capo dello Stato, Fernando de la Rua, ordinò alle banche di congelare i conti correnti di 18 milioni di risparmiatori, permettendo solo il prelievo di piccole somme di denaro. Una misura disperata per frenare la fuga di capitali e la corsa agli sportelli per ritirare il contante. La decisione delle autorità scatenò la protesta popolare. Spuntarono le casseruole: le persone si affacciavano alle finestre e ai balconi e cominciavano a battere ritmicamente. Poi i manifestanti scesero in strada, portandosi le padelle di ferro e di alluminio. In realtà c’è un precedente: il cacerolazo delle donne cilene contro il presidente Salvador Allende nel 1973. A Buenos Aires, accanto ai cortei pacifici e rumorosi, si svilupparono forme di guerriglia e duri scontri con la polizia. De la Rua reagì proclamando lo stato di emergenza. Per tutta risposta il popolo delle casseruole si ritrovò il 20 e il 21 dicembre nella Plaza de Mayo, il cuore della capitale. Ci furono altri incidenti con le forze dell’ordine. Ci furono dei morti. Ma a quel punto de la Rua si dimise e fuggì in elicottero dalla Casa Rosada il 21 notte. A Buenos Aires la cacerola è ricomparsa nel 2008, animando i capannelli contro l’aumento delle tasse sui redditi agricoli. Nel 2011 torna sull’altra costa del continente e finisce nei sit-in degli studenti cileni.

PECHINO 1989 LA DEA CINESE DELLA LIBERTÀ DISTRUTTA DAI TANK –

La foto simbolo della rivolta di Tienan- men a Pechino è quella dell’uomo solo, inerme, davanti ai carri armati dell’esercito. Dal 15 aprile al 4 giugno 1989 il mondo occidentale osservò ammirato il risveglio degli studenti e dei lavoratori cinesi. Ma quegli stessi studenti, quegli stessi lavoratori guardavano alla civiltà dei Paesi sviluppati come a un modello di democrazia da contrapporre all’assoluti- smo del Partito comunista. Alla fine di maggio gli universitari dall’Accademia centrale delle Belle Arti cominciarono a costruire una statua, subito chiamata la Dea della democrazia e della libertà, pro- prio di fronte al grande ritratto di Mao Zedong che domina la piazza. I giovani dichiararono di non voler riprodurre la Statua della libertà di New York, anche se le somiglianze e le assonanze erano evi- denti. Una corrente di pensiero sosteneva, invece, che la fonte di ispirazione fosse una scultura realizzata da Vera Mukhina nel 1937, la Donna del Kolkhoz, cioè l’eroica lavoratrice delle cooperative agricole nel- l’era sovietica. I ribelli di Tienanmen mon- tarono un’armatura metallica e utilizzaro- no polistirolo e cartapesta. Il 30 maggio l’opera, alta 9 metri, era pronta. Ma resi- stette soltanto pochi giorni. Il 4 giugno venne distrutta dai tank e con lei fu schiac- ciata la protesta. La sua traccia, però, non è andata perduta. Una copia spuntò in una veglia in ricordo del massacro di Tienan- men, nel Victoria Park di Hong Kong, il 4 giugno 1996. Un’altra, in bronzo, è stata eretta nella Chinatown di San Francisco.

BRESLAVIA 1988 UN’ONDA BEFFARDA DI PUFFI ARANCIONI CONTRO JARUZELSKI –

La Polonia della fine degli anni Ottanta è ormai a un passo dalla conquista della democrazia. La lunga battaglia contro il regime comunista, però, non è ancora finita. Il paradigma di quella lunga vicenda ruota su alcune figure chiave: Lech Walesa, il sindacalista di Danzica fondatore di Solidarnosc (premio Nobel nel 1983), il Papa di Cracovia Karol Wojtyla, salito al soglio pontificio nel 1978, e il generale Wojciech Jaruzelski, artefice prima della legge marziale, poi, nel 1989-1990, dello smantellamento indolore del regime. Nel 1988 però, un anno prima del biennio decisivo, le strade di Wroclaw (o Breslavia), quarta città del Paese, si colorano di arancione: migliaia di manifestanti sfilano calzando berretti da gnomi e lasciando interdette le forze di polizia. Una specie di happening surrealista che si ripetè nelle settimane successive, nonostante gli arresti. Il movimento si chiamava Ondata arancione, lo slogan: «Noi siamo gli gnomi». Il suo leader era Waldemar Frydrych, oggi sessantunenne, all’epoca un intellettuale meno conosciuto del sindacalista di Danzica. Nel 1986 aveva costituito Ondata arancione partendo dai collettivi studenteschi. E nel marzo del 1988 si era fatto notare, e arrestare, per aver promosso una distribuzione pubblica di assorbenti (introvabili nei negozi) alle donne polacche. Poi l’idea del cappello e delle marce arancioni. Anche questo buffo copricapo da puffo è il simbolo della disobbedienza civile che fece collassare il comunismo in Polonia e poi in Europa.

NEW YORK 1986 «NO AL SILENZIO» GRIDA IL TRIANGOLO DEGLI ATTIVISTI GAY

Un triangolo rosa sul camicione dei deportati nei lager nazisti. Nel 1943 le SS tedesche avviano il Programma di sterminio attraverso il lavoro forzato, uccidendo decine di migliaia di omosessuali. Le stime di quello che è stato definito «Omocausto» variano da 10 mila a 600 mila, a seconda di come vengano conteggiate le vittime, spesso appartenenti ad altri gruppi perseguitati dai nazisti. Quel triangolino rosa ritorna negli anni Settanta, quando negli Stati Uniti prendono forma i primi movimenti per i diritti dei gay. All’inizio degli Ottanta compare l’Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita, che all’inizio, anche negli ambienti medici, viene messa in relazione all’omosessualità. Le nuove acquisizioni scientifiche dimostrano, poi, che la sindrome si trasmette con la stessa frequenza anche nei rapporti eterosessuali. È una questione di protezione. Ma in quegli anni il pregiudizio diventa irrefrenabile. Larghi settori dell’opinione pubblica osservano con diffidenza, se non con disprezzo, le scelte e gli stili di vita degli omosessuali. In quel clima, nel 1986, Avram Finkelstein, artista e scrittore di Brooklyn, insieme ad altri cinque attivisti, rilancia il triangolino rosa e lo fa diventare il logo del progetto collettivo Silence=Death , «Silenzio=Morte». Ma, come si legge nel testo dell’Avram Finkelstein Archive esposto nella mostra, la punta ora viene rovesciata, rivolta verso l’alto. Da segno di umiliazione a emblema dell’orgoglio gay. La tesi: le bugie sull’Aids sono pericolose come quelle dei nazisti sui campi di concentramento.

MANCANO LE SCARPE DEL GIORNALISTA IRACHENO ANTI-BUSH E L’IRONIA SURREALISTA –

Un venerando museo londinese, fondato nel 1851 e intitolato al nome di due illustri sovrani britannici (Vittoria e Alberto), ha fatto una monelleria dimenticando per qualche settimana il suo austero passato. Completato in stile neogotico nel 1899, il museo custodisce quadri e sculture di grande importanza ma è soprattutto una sorta di enciclopedia delle arti applicate, con settori dedicati alla ceramica, al vetro, alla porcellana, ai tessuti, all’argenteria, alla falegnameria di qualità, ai gioielli, alle stampe. La vocazione enciclopedica è confermata da una raccolta di grandi calchi, realizzati verso la fine dell’Ottocento, fra cui quello della Porta Magna della Basilica di San Petronio a Bologna.
È un museo democratico e popolare, concepito per educare le masse al gusto delle arti; ma è anche l’antenato di quello che chiameremmo oggi un museo del design, vale a dire il luogo in cui l’arte ha i piedi per terra e non dimentica i gusti, le mode, le nuove tecnologie, le esigenze della produzione industriale. Non ha perduto la sua patina ottocentesca ma negli ultimi decenni ha lanciato qualche segnale alle nuove generazioni, fra cui un concerto rock nel 1970. Quest’ultima mostra, dedicata agli «oggetti disobbedienti», va ancora più in là, strizzando l’occhio alle rivoluzioni e alle rivolte dagli anni Settanta ai nostri giorni. Che cosa ne avrebbe pensato Alberto, principe consorte, amante delle tradizioni e appassionato studioso del folclore scozzese? Che cosa ne avrebbe pensato Vittoria, donna di severi costumi e imperatrice delle Indie?
All’origine della mostra vi è una premessa condivisibile. Le fasi rivoluzionarie sono anche fasi creative. La rivolta aguzza l’ingegno, accende l’immaginazione, crea oggetti che diventano con il passare del tempo evocativi e simbolici. Per restare al Novecento, la rivoluzione bolscevica ha prodotto una nuova grafica per libri e manifesti, ha inventato una nuova moda (fra cui la leggendaria giacca di cuoio dei commissari e il képi appuntito delle guardie rosse), ha riempito le piazze di statue effimere, realizzate con materiali poveri e dedicate a grandi precursori del passato, fra cui una di Tommaso Campanella. Dopo la fine della guerra civile e soprattutto durante la Nep (il provvisorio ritorno al mercato deciso da Lenin per rimediare ai guasti del comunismo di guerra), piccole fabbriche e artigiani cominciarono a produrre oggetti ispirati dagli avvenimenti degli anni precedenti, fra cui un gioco degli scacchi in cui le pedine erano da un lato le guardie bianche e dall’altro i soldati dell’Armata rossa.
Qualcosa del genere accadde a Parigi nel maggio del 1968. La Scuola di Belle Arti nella rue Bonaparte divenne un atelier autogestito dove si stampavano piccoli manifesti aggressivi e dissacranti disegnati con un tratto volutamente popolare e naïf. Poi, dopo i grandi scontri fra studenti e Crs (i poliziotti delle Compagnies républicaines de sécurité), apparve nei negozi del quartiere una riproduzione in plastica del pavé, il cubetto di pietra strappato alla pavimentazione che era l’arma preferita dei manifestanti. Ne regalai uno a Vanni Scheiwiller, che amava i memorabilia ed era particolarmente divertito dalle trovate un po’ goliardiche di Piero Manzoni. All’esposizione di Londra c’è invece un mega-pavé gonfiabile, usato nelle manifestazioni per intralciare le cariche della polizia.
Gli oggetti dell’esposizione londinese appartengono grosso modo a due categorie. Vi sono gli strumenti della lotta, inventati sul campo, fra cui i coperchi delle casseruole usate dalle donne argentine come piatti d’orchestra per mandare a casa tre presidenti nel giro di qualche settimana alla fine del 2001. Ma vi sono anche oggetti simbolici, creati per mobilitare la folla e lanciare messaggi, come una copia di quella Dea della libertà che apparve improvvisamente sulla piazza Tienanmen nelle grandi manifestazioni del maggio-giugno 1989. Credo che manchino invece le scarpe del giornalista iracheno Muntadhar Al Zaidi, lanciate contro George W. Bush durante una conferenza stampa a Bagdad nel 2008 e diventate poi una delle armi preferite delle rivolte arabe.
Vi è un rischio, purtroppo: che questi oggetti disobbedienti diventino reliquie per i nostalgici rivoluzionari di ieri o feticci per quelli di domani. Non nascondo che le mie preferenze vanno ad altri oggetti esposti recentemente al Centro Pompidou di Parigi. Sono gli oggetti stravaganti, inutili ma geniali, dei grandi surrealisti, da Marcel Duchamp a Man Ray, da Joan Miró a Viktor Brauner. Sono rivoluzionari e trasgressivi, ma colpiscono e feriscono soltanto con l’immaginazione e l’ironia.
Sergio Romano