Alessandro Piperno, Corriere della Sera - La Lettura 3/8/2014, 3 agosto 2014
ELOGIO DELL’IPOCRISIA
Tanti anni fa, nel dedalo di viuzze che ancora oggi compongono il vecchio ghetto di Roma, si aggirava una signora un po’ stramba a cui nessuno rivolgeva la parola. Si diceva fosse stata una ragazza spigliata, sbarazzina, straordinariamente procace. Qualcosa doveva essere andato storto se la sua occupazione odierna consisteva nel battere le vie del ghetto con un cane immaginario al guinzaglio. Lo vezzeggiava, lo rimbrottava continuamente, suscitando la costernazione dei passanti. Quando la vidi per la prima volta stavo accompagnando mio nonno da un cliente. Ero abbastanza piccolo da trovare sbalorditiva la vista di una signora che parla con un cane inesistente. Immaginate allora il mio stupore quando mio nonno si chinò sull’invisibile bestiolina chiedendo con disinvoltura: «Come si chiama questo adorabile cagnetto?». «Si chiama Zeta».
Ho un ricordo abbastanza preciso della mia indignazione. Come poteva mio nonno farsi beffe della follia di un’alienata? Non aveva alcun rispetto per lei? Cosa lo aveva indotto a un così impudente gesto di scherno? Pochi giorni dopo, mio nonno ed io ci imbattemmo ancora nella signora. Stavolta fu lei ad avvicinarsi e a sorriderci. «Mi scusi, dottor Piperno, Zeta voleva farle le feste!». Fu allora che capii che la sollecitudine con cui mio nonno aveva assecondato la pazzia della signora non aveva l’intento derisorio che le avevo attribuito. Era un semplice disinteressato gesto di cortesia.
Passa qualche anno. Sono vicino alla laurea. La mia arroganza trae linfa dal carisma sessuale conferitomi dalla mia nuova ragazza. È molto carina, ci adoriamo. Una sera siamo seduti al tavolo di una pizzeria in Prati quando entra una mia compagna di classe che ai tempi del liceo mi piaceva parecchio. Mi alzo e corro a salutarla. Quando mi risiedo, la mia ragazza, piuttosto immusonita, mi dice: «Non pensavo ti piacessero ragazze del genere». La gelosia è la sua debolezza. Ecco perché dovrei rassicurarla. Dirle che non mi piace alcun genere di ragazza, perché a me piace solo lei. E invece mi metto lì a concionare. Non solo mi piacciono quel genere di ragazze lì, ma anche un’altra dozzina di generi che lei non può neppure immaginare. Poi alzo il tiro, snocciolando verità a buon mercato: la monogamia non ha senso, è un’impostura puritana; tutti siamo potenziali adulteri, soprattutto quelli che dicono di non esserlo. La foga oratoria trova requie solo alla comparsa della prima lacrima sulla guancia della mia ragazza. L’ho insultata. L’ho resa inutilmente infelice. L’ho fatta piangere. E tutto in nome di una verità che ciascuno di noi conosce, ma che non è così urgente ricordare al prossimo.
Sono solo due esempi, tratti dalla mia esperienza, che mostrano in modo plastico quanto la sincerità sia sopravvalutata. Detesto le persone schiette. Quelle che ti sbattono in faccia quello che pensano. Che ti dicono che sei ingrassato, che hai scritto un articolo insulso, che mentre parlavi di fronte alla vasta platea erano tutti ipnotizzati dal pezzo di spinacio incastrato tra i canini del conferenziere. Per non dire di quelli che proprio ieri hanno visto la tua ex mano nella mano con un altro tizio («sembravano felici»). Mi fa infuriare la finta coscienza immacolata, la malafede travestita da buonafede. Trovo volgare la retorica del pane al pane. E invece ho un debole per le ragazze che dopo il sesso ti dicono che non è mai stato così bello, per gli oncologi pietosi, gli avvocati ottimisti, i ruffiani di ogni foggia e colore. Adoro gli ipocriti. Un grande scrittore francese del secolo scorso diceva che la sincerità è la bava del cattivo umore. Non sempre naturalmente, ma molto spesso l’esigenza di dire una verità spiacevole cela un’inconfessabile frustrazione, un malanimo dissimulato.
Il dilemma del Seicento (e di oggi)
A proposito di grandi scrittori francesi, è ora di interpellare Molière. Un vecchio adagio sostiene che sia lui il fustigatore di ipocriti per antonomasia. Le cose stanno davvero così? Forse occorre ricordare che Molière è un uomo del Seicento, il secolo in cui la dialettica tra sincerità e ipocrisia raggiunge un apice mai più eguagliato. Che cosa è meglio: intraprendere la via diretta della sincerità o quella tortuosa dell’ipocrisia? Nel Seicento ogni cosa esprime questo dilemma: agli alfieri della dissimulazione si oppongono i moralisti classici; ai grandi conversatori replicano silenziosi gli eremiti; lo scintillio della Corte è minacciato dalle tenebre di Port Royal; il bigottismo cattolico ingaggia una lotta senza quartiere contro il giansenismo... È questo il contesto storico in cui opera uno dei più grandi geni comici di ogni tempo. Ecco il mondo di Molière. Del resto, lui conosce la corte, ne fa parte, godendone i frutti prelibati. Malgrado non faccia altro che sferzare i costumi dell’ipocrita società in cui vive, neanche Molière è in grado di risolvere, una volta per sempre, la controversia: che cosa scegliere tra sincerità e ipocrisia? Nel Tartufo Molière sembra avere le idee chiare. Ancor prima che Tartufo arrivi in scena (e come altri grandi eroi della letteratura — Emma Bovary, Stavrogin, Gatsby — Tartufo ama farsi attendere), noi già sappiamo di che pasta è fatto. È un farabutto, un impostore, un ipocrita patentato. Lui e le sue maniere affettate, lui e la sua devozione fasulla. Per non dire del modo in cui ha plagiato il ricco Orgone, per piazzarglisi in casa e vivere impunemente alle sue spalle. Cleante, cognato di Orgone, definisce la religiosità di Tartufo «vana vernice di uno zelo specioso». E mi pare che interpreti a perfezione il pensiero di Molière.
Le cose si complicano però se diamo un’occhiata a Il misantropo . In quella meravigliosa pièce (forse l’apice dell’arte di Molière), Alceste, il protagonista, non si fa attendere come Tartufo. Si apre il sipario ed eccolo già lì a discutere bellicosamente con il suo amico Filinte. L’argomento della disputa è per l’appunto l’ipocrisia. Alceste è un feroce oppositore di qualsiasi mistificazione. Un alfiere incorrotto dell’autenticità. Per lui non esiste verità abbastanza scomoda da essere celata all’interlocutore. Se un pessimo poeta ti implora di giudicare i suoi versi, devi gridargli in faccia che fanno schifo. Se una signora ti chiede un parere sulla nuova messa in piega, devi dirle che di acconciature ridicole ne hai viste, ma che questa le supera tutte. Alceste disprezza gli «inventori di inchini», i «porgitori garbati di frivole carezze», i «cortesi dicitori d’inutili parole», insomma gli ipocriti. La sua intransigenza, però, ci appare isterica, dettata da sentimenti risentiti e biliosi. Tanto quanto le argomentazioni del suo amico Filinte ci sembrano ispirate da un buonsenso benevolo. Perché insultare gratuitamente l’interlocutore, se hai la possibilità di proteggerlo dalle sue stesse debolezze? Ha senso andare da una tredicenne sovrappeso e dirle che sarebbe il caso di mettersi a dieta? Perché non rassicurare tuo marito sul fatto che anche stempiato è ancora un bel tipo? E soprattutto perché dire a un malato terminale che ha i giorni contati? Perché conferire tanto prestigio alla verità? Chi lo dice che la verità meriti così tanti riguardi? «Ci sono casi — dice Filinte all’amico — in cui la totale franchezza risulterebbe buffa e maltollerata». A volte occorre «dissimulare quel che abbiamo nel cuore». Ecco, mi sembra che stavolta sia più difficile stabilire per chi parteggi Molière. È del tutto evidente che tra l’ipocrisia a fin di male di Tartufo e quella a fin di bene di Filinte ci sia una bella differenza.
Tutti odiano Karenin
E che dire dell’ipocrisia di Karenin, il marito dell’assai più celebre Anna Karenina? Si tratta di ipocrisia a fin di bene o a fin di male?
Difficile non lasciarsi influenzare dal moralismo tolstoiano. È lui, Tolstoj, a menare le danze dei nostri sentimenti. È evidente che condivide con la sua eroina l’odio per l’aristocrazia zarista: frivola, conformista, filistea. Di solito Tolstoj si sforza di mostrarci il lato umano dei personaggi negativi. Con Karenin non si sforza poi molto. Non c’è tratto nel fisico e nel carattere di Karenin che non susciti ribrezzo. L’imperturbabilità, la costumatezza, le risposte taglienti, l’affettività tenuta a bada da ironia e senso del decoro. E poi quelle orecchie troppo grandi che Anna d’un tratto nota, e che il lettore non potrà più scordare. Quelle orecchie, come il piatto sporco di Charles Bovary, giustificano qualsiasi adulterio. La prima cosa che Anna avverte, quando — dopo una burrascosa notte in treno — trova il marito ad attenderla sulla banchina, è un sentimento di «finzione».
Proprio come Tartufo, Karenin appare in scena già con le stigmate dell’ipocrita, dalle quali, peraltro, non potrà più liberarsi. Quando la moglie inizia a compromettersi, Karenin non sa che fare. È sconvolto. Lui che ha sempre deprecato la gelosia si scopre geloso. Lui che ha sempre saputo affrontare le avversità si sente impotente. L’immagine che Tolstoj utilizza per raccontarci il dramma interiore di Karenin è splendidamente efficace.
È la prima volta, scrive Tolstoj, che Karenin si trova «faccia a faccia con la vita». La vita è l’ipotesi stessa che Anna sia in procinto di tradirlo. Ed è un’ipotesi che il mondo lindo e ordinato di Karenin si rifiuta di contemplare. Del resto, è tipico dell’ipocrita negare alla vita il diritto di esprimersi liberamente, capricciosamente. Così come è tipico dell’ipocrita nascondere a se stesso e agli altri ciò che la vita rivela senza ritegno. Il discorso che Karenin fa alla moglie è un saggio ineguagliabile di ipocrisia. Per metterla in guardia, lui chiama in causa le leggi della convenienza, le regole della società, il legame coniugale sancito da Dio. En passant , allude anche al suo amore per lei, ma lo fa con una freddezza che non persuade né lei, tanto meno il lettore.
Il lettore sobillato
Ed eccoci al punto. Il vero problema di Karenin è che lui non riesce a convincere il lettore. Il quale, sobillato da Tolstoj, si ritrova a odiare Karenin con tutte le forze. Eppure, a ben guardare, il discorso di Karenin ad Anna, e il conseguente contegno da lui assunto, è civile e pieno di buonsenso. Karenin, consapevole di non poter agire sui sentimenti della moglie, la invita a dissimularli con maggior cura. Non dico che la sprona a un adulterio discreto (ipocrita?), ma poco ci manca. Ed è proprio questa l’ipocrisia esecrata da Tolstoj e dal lettore. Lo stesso lettore che, alle prese con le cose della sua vita, è solito comportarsi come Karenin. Che non sia questa l’ipocrisia del lettore di cui parlava Baudelaire? Il lettore si aspetta dagli eroi dei romanzi un contegno onesto che lui stesso è incapace di adottare. Il lettore non perdona a un personaggio ciò che di solito perdona a un amico, o a se stesso.
Ecco ciò che distingue la vita dalla letteratura. La letteratura aborrisce l’ipocrisia. La vita non può farne a meno. Lo scrittore s’impegna a indicare, con mezzi espressivi adeguati, l’ipocrita di turno, il lettore si impegna a riconoscerlo immediatamente e a detestarlo per sempre. Il lettore è insaziabile: desidera che l’ipocrita subisca lo stesso trattamento che Dante riserva a Caifa: crocifisso in terra e condannato per l’eternità a essere calpestato dai suoi pari.
L’esperienza di lettore ha fatto di me un grande odiatore. Peccato che gli oggetti di tanto odio per lo più non esistano. Odio Iago e Madame de Merteuil; provo un profondo disprezzo per Mr Collins, Mr Podsnap e Monsieur Homais; ho un conto in sospeso con Madame Verdurin e tutto il suo maledetto clan. Possibile che solo ora mi accorga che non è la malvagità ciò che assimila questi personaggi, bensì l’ipocrisia? Evidentemente il solo ambito in cui sono capace di esercitare una certa intransigenza morale è la letteratura. Nella cosiddetta vita di tutti giorni la verità mi appare così fastidiosa, così losca che preferisco non averci nulla a che fare. È vero, ci sono istituzioni che difendono il diritto di conoscere la verità, ma chi tutela il diritto di ignorarla? È davvero così impellente informare un amico dei tradimenti della moglie? È necessario che le parole «ti amo» corrispondano sempre a un sentimento autentico e incorrotto? Ripenso ancora a mio nonno. Una volta, a una cena, lo sentii elogiare la bellezza degli occhi di una donna la cui bruttezza era proverbiale, e vidi quella donna arrossire di piacere. C’è qualcosa di civile, di tenero nella piaggeria.