Andrea Pasqualetto, Paolo Tomaselli, Francesco Alberti, Corriere della Sera 3/8/2014, 3 agosto 2014
«PANTANI UCCISO». COSÌ È NATA L’INCHIESTA [3
pezzi] –
DAL NOSTRO INVIATO RIMINI — L’assassino che infila l’ingresso secondario del residence, che sale le scale, bussa alla porta di Pantani, irrompe nella stanza, immobilizza il Pirata e lo costringe a bere un bicchiere d’acqua dove prima ha sciolto la cocaina, uccidendolo. Anzi, suicidandolo, perché questo era l’obiettivo del killer, farlo passare per un suicidio involontario. Un piano diabolico, perfetto, cinematografico. Marco Pantani potrebbe essere morto così. L’ipotesi è dell’avvocato della famiglia del ciclista, Antonio De Rensis, e dunque della famiglia stessa e di mamma Tonina in particolare, che ha sempre lottato perché il sipario sulla fine prematura di suo figlio non fosse calato con quell’infamante «morte per overdose di cocaina». No: omicidio volontario. Questo è il risultato della complessa indagine difensiva fatta da De Rensis e depositata la scorsa settimana alla procura di Rimini, costringendo così gli inquirenti ad aprire una nuova inchiesta sul caso Pantani, a distanza di oltre 10 anni da quel 14 febbraio 2004, quando il corpo senza vita del campione fu trovato riverso a terra in una stanza del residence «Le Rose» di Rimini dove stava soggiornando, disperato e solo. Il procuratore della città romagnola, Paolo Giovagnoli, chiarisce tutto rispondendo al telefono dalla vacanza: «Allo stato sappiamo solo che c’è un esposto nel quale si ipotizza che Pantani sia stato ucciso volontariamente. Come atto dovuto abbiamo aperto un fascicolo iscrivendolo a modello 44 (il registro delle notizie di reato contro ignoti, ndr), visto che non si indicano eventuali responsabili. Ma a dire il vero non abbiamo ancora letto nulla e quindi bisognerà aprire con calma questo plico cercando di capire cosa dicono. Cioè, l’indagine non è ancora partita».
E invita all’attesa anche il vincitore del Tour Vincenzo Nibali: «Non credo faccia bene al ciclismo parlare della morte di Pantani, e nemmeno a Marco», ha dichiarato ieri a Vanityfair . «Non stiamo analizzando i risultati di un’inchiesta. Evitiamo di fare i processi sui giornali».
Cosa ci sia all’interno del ponderoso esposto lo spiega l’avvocato De Rensis che l’ha firmato dopo averci a lungo lavorato: «Si tratta di un documento molto articolato che si compone di tre parti: un’indagine difensiva con nuove e importanti testimonianze, una rilettura degli atti processuali e d’indagine, circa 5 mila pagine, e una consulenza medico legale. Il tutto porta ad una realtà dei fatti molto diversa da quella emersa ufficialmente all’epoca della prima inchiesta che è stata minata alla base da enormi lacune e contraddizioni. Alla base di tutto c’era un assunto quasi granitico: nessuno è entrato e nessuno è uscito da quell’appartamento». L’indagine di allora portò al patteggiamento di due spacciatori, Fabio Miradossa e Ciro Veneruso, che avevano confessato di aver portato 20 grammi di cocaina a Pantani la sera del 9 febbraio, rispondendo così di morte come conseguenza di altro reato. A processo finì invece Fabio Carlino, titolare di un’agenzia di ragazze immagine, che avrebbe collaborato alla fornitura della droga. Condannato in primo e secondo grado, Carlino è stato prosciolto in Cassazione. Cos’è dunque cambiato? A dare valore all’esposto è senza dubbio la consulenza medico legale firmata dal professor Francesco Maria Avato, docente universitario e dirigente del Dipartimento interaziendale strutturale di medicina legale a Ferrara. Un luminare del settore. Ma quali sono gli elementi nuovi e forti del documento di De Rensis? Primo: esisteva un secondo ingresso nel residence, dal garage, che consentiva di salire ai piani fino alle ore 23 senza passare dalle portineria e dunque senza essere visti. Secondo: i tre giubbotti pesanti e tecnici trovati nella camera di Pantani. «Chi li ha portati lì, se ben quattro testimoni confermano di aver visto Pantani sempre e solo con una piccola sportina dove certamente i giubbotti non entravano?». Terzo, scientifico: «Le ferite di Pantani, compatibili con una colluttazione più che con una caduta a terra. Un bernoccolo, un taglio all’arcata sopraccigliare, le ferite circolari al capo». Quarto: la quantità di droga. «Considerato che ne è stata trovata dappertutto a terra e che i 20 grammi li aveva da 5 giorni, non sarebbe bastata per un overdose. Qualcuno ne ha portato dell’altra». Quinto: le impronte digitali: «Perché non furono rilevate?». Cinque dubbi ai quali gli investigatori di allora rispondo con poche parole: semplice, perché la verità è che è morto di overdose.
Andrea Pasqualetto
IL GIORNALISTA DEI DUBBI «QUEL DISORDINE SEMBRAVA STUDIATO» [Intervista a Philippe Brunel] –
Philippe Brunel, giornalista parigino del quotidiano l’Equipe e scrittore, è l’autore di Gli ultimi giorni di Marco Pantani nel 2006, una controinchiesta sulla morte del campione.
Cosa la colpisce della riapertura dell’inchiesta per omicidio?
«Che non c’è praticamente niente di nuovo rispetto a quello che era già stato detto, a parte una traccia sul polso di Marco. Ma la riapertura del caso è una bella notizia e conferma che l’inchiesta di allora fu fatta velocemente e male».
Perché secondo lei?
«Fu presa la tesi del suicidio come ufficiale, e tutto fu orientato su questo. Perché ci sono voluti dieci anni per dare peso ad alcuni elementi così evidenti, come le ferite sul corpo o dietro alle orecchie?».
Lei che risposta si dà?
«Penso che quello di Rimini allora fosse un contesto molto difficile e anche nel mio lavoro ho avuto delle difficoltà. Di più preferisco non dire».
In qualche modo lei è stato un precursore. Prova soddisfazione personale?
«Mi fa piacere che adesso ci sia un avvocato e non un giornalista ad occuparsi della cosa, perché diventa più grave e autentica, non solo parole. Ma tutto quello che io posso aver fatto, l’ho fatto per Marco».
Cosa intende?
«Per chi come me lo ha conosciuto a fondo c’era in qualche modo la necessità di difendere la memoria di una persona buona».
Ha mai creduto alla tesi del suicidio?
«Mai, per un solo momento. Pantani non si sarebbe mai suicidato, anche da drogato. Non era fuori di testa e lo confermano le testimonianze di chi aveva avuto a che fare con lui in albergo».
Gli elementi che la convincevano meno quali erano?
«Il disordine organizzato della stanza saltava all’occhio. E i resti di un pasto: o Marco era uscito dalla stanza o qualcuno era entrato. Senza contare come detto i segni del corpo. Eppure tutto questo fu considerato normale».
Adesso secondo lei si riuscirà a provare che fu omicidio?
«Credo sia un po’ complicato, perché la nuova pm deve andare contro la magistratura di Rimini. Ma almeno si è preso atto che l’inchiesta precedente era lacunosa. È già qualcosa».
Paolo Tomaselli
LA LUNGA LOTTA DI MAMMA TONINA: MI DAVANO DELLA MATTA, E ADESSO? –
DAL NOSTRO INVIATO CESENATICO — All’ingresso del cimitero hanno appeso da tempo un foglietto, «Marco Pantani, fila numero 16», perché non sarebbero bastati due custodi per smistare il traffico di tifosi. La cappella di famiglia è un cilindro in pietra che amplifica le voci microfonate degli animatori dei vicini hotel. È qui il «burdèl» che scorrazzava per Cesenatico con le ginocchia sempre sbucciate, orecchie da Dumbo a fargli da ali, una faccia da scavezzacollo che lo rendeva inimitabile fumetto. Di prima mattina mani affettuose hanno comunicato al Pirata che la trama della sua morte è ancora tutta da riscrivere: «Riaperta l’inchiesta. Ora paghi chi deve pagare! Ne va della tua dignità e di quella della tua famiglia» ha lasciato scritto nel libro delle dediche, sotto le foto di nonno Sotero e nonna Alfea, tal Giuseppe sceso da Bolzano. Non ce l’ha fatta invece mamma Tonina a passare dal suo Marco: «Non ho chiuso occhio, sono a pezzi, mi sta cercando mezzo mondo...». Era da qualche giorno che sapeva della riapertura dell’indagine: «Ma non volevamo che la cosa oscurasse i festeggiamenti per la vittoria al Tour di Nibali» racconta chi le è vicino. Poi la scorsa notte, su Facebook, l’annuncio: «E adesso mi cercano tutti — la voce di Tonina si fa solida in un impasto di italiano e dialetto romagnolo —, ma dov’era questa gente negli ultimi dieci anni quando mi sbattevo da una parte e dall’altra, bussavo a mille porte, chiedendo solo che mi ascoltassero, ascoltassero il cuore di una madre che aveva dentro la certezza che non era finita come volevano fosse finita?».
A volte le pellicole vanno riavvolte per poterne meglio decifrare il finale. Il 17 febbraio del 2004, tre giorni dopo la morte di Marco, la chiesa di San Giacomo che guarda il porto canale, e Cesenatico tutta, erano un’enorme camera ardente. Bagnini, massaie, preti, turisti e facce da patacca assortite sfioravano intimoriti la bara, qualcuno osando una carezza, nessuno un commento. All’improvviso un grido spaccò le navate: «Me l’hanno ammazzato, me l’hanno ammazzato!». Era Tonina, quel che restava di lei: uno straccio di donna sulle spalle del marito Paolo. Pareva una resa. Era l’inizio di un cammino. Ieri davanti alla villa color arancione, tra i campi della frazione Sala, sullo sfondo l’Appennino che fece da incubatrice al Pirata scalatore, i tifosi sono venuti per lei: «Dai Tonina che ce l’hai fatta, stavolta è quella buona!». Perso il suo Marco, è toccato a questa donna, che sfornava crescioni e piadine sul vialone che guarda il mare, inventarsi un personalissimo gran premio della montagna. Cocciuta, testarda, aggressiva se necessario, pur di far passare una trama diversa di quella maledetta notte di San Valentino: «Mi consideravano una matta! Sentivo sulla pelle la diffidenza di tanti! Ma sono andata avanti».
C’è di tutto nel dramma di una madre. Anche i sensi di colpa. Tonina, prima che Marco precipitasse nell’imbuto della morte, aveva tentato di fargli da scudo. Bene? Male? Ormai non importa, però ci aveva provato. Tempestò di minacciose telefonate Fabio Miradossa, il napoletano che sin dal 2003 era divenuto il fornitore di fiducia di Marco (ha patteggiato 4 anni e 10 mesi), spaventandolo a tal punto da spingerlo ad abbandonare Rimini. Si era anche messa sulle tracce di Ciro Veneruso, altro napoletano, il corriere che confessò di aver venduto a Marco il 9 febbraio la dose mortale (per lui patteggiamento di 3 anni e 10 mesi). Ci furono anche scontri con coloro — amici veri e presunti — che facevano in quei giorni da corte a Pantani, gallina dalle uova d’oro a dispetto di una carriera che stava andando in frantumi. «Era come se quella donna maturasse giorno dopo giorno la consapevolezza che sarebbe finita in tragedia...» racconta adesso un amico. Una leonessa. Come quando affrontò a muso duro la russa Elena, ballerina di night che impreziosiva la merce dei pusher napoletani con prestazioni vietate ai minori. «Stai lontano da lui, me lo rovini!» le ringhiò in faccia una sera Tonina, i pugni stretti sui fianchi, e dovettero intervenire i carabinieri per evitare che la faccenda degenerasse.
Negli anni la sua voglia di verità ha ondeggiato tra derive complottistiche («Marco dava fastidio a qualcuno, ha sempre lottato contro l’omertà di certi ambienti») e il terrore di portarsi nella tomba quesiti mai chiariti («Troppe cose non quadrano nella sua morte, ho il diritto di sapere»). Ma quello che più la faceva soffrire era la convinzione che al suo Marco, dopo quel 5 giugno del ’99 in cui venne fermato a Madonna di Campiglio con l’ematocrito fuori dalla norma, «non fosse stata concessa una seconda possibilità». Ora è Tonina alla guida del gruppo, come un tempo lo era il Pirata. Angelo Pezzotta, presidente del fans club (circa 11 mila iscritti), quasi esulta, se non fosse che sempre di morte si parla: «Finalmente ci danno retta». E in tanti si fermano davanti al museo Pantani, a fianco della stazione di Cesenatico, nelle cui sale intitolate ad alcune delle mitiche scalate del Pirata (Mortirolo, Alpe d’Huez e Bocchetta) sono sfilati in questi anni più di 30 mila visitatori, vanto di una Fondazione nata per declinare sul versante benefico il seme agonistico di un campione inesorabilmente, e per sempre, fuori da ogni schema.
Francesco Alberti