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 2014  agosto 03 Domenica calendario

LA NUOVA CAMPAGNA D’AFRICA DI OBAMA


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Lo sviluppo dell’Africa è la prossima, grande success story del mondo e gli Stati Uniti vogliono esserci. Barack Obama questo concetto l’ha declinato varie volte a partire dal suo viaggio di un anno fa in Senegal, Tanzania e Sud Africa. E ora cerca di dare una spinta ai rapporti economici, politici e nel campo della sicurezza tra gli Usa e un Continente Nero nel quale ormai spuntano grattacieli dappertutto (anche se spesso piantati in mezzo a baraccopoli) con un vertice che non ha precedenti nella storia americana: da domani e per tre giorni i capi di Stato e di governo di 50 dei 54 Stati africani saranno ospiti di una Washington per l’occasione blindata e col traffico semiparalizzato per discutere col presidente, coi capi di duecento multinazionali statunitensi e coi rappresentanti del Congresso di nuovi progetti di cooperazione nei campi più disparati. Si va dall’elettrificazione dell’Africa alla lotta al terrorismo che proprio in questo continente sta mettendo radici profonde e assai pericolose con organizzazioni come Boko Haram in Nigeria, Al Shebab nel Corno d’Africa, i gruppi legati ad Al Qaeda in Mali e in altre regioni sahariane, mentre interi Paesi, soprattutto Libia e Somalia, sono in preda all’anarchia, ridotti a ingovernabili palestre di violenza.
Un continente dai mille contrasti, ancora poverissimo e con una concezione precaria dei diritti umani (l’omosessualità è tuttora perseguita come un crimine in 37 Stati e in quattro è punibile con la pena di morte), ma nel quale con lo sviluppo dell’economia (6 delle 10 nazioni al mondo che crescono più rapidamente sono africane) prende corpo un ceto medio e una classe dirigente dalle idee più aperte. Obama ha fatto le cose in grande: dai forum sulla promozione del ruolo delle donne alle conferenze commerciali passando per le cene offerte dalla Casa Bianca e da quelle dei parlamentari, sotto la cupola del Campidoglio, agli incontri dedicati alla cooperazione anti-terrorismo. In realtà quella degli Usa, più che un’offensiva, è un affannoso tentativo di recupero.
Pur essendo il Paese che ha fatto di più per aiutare l’Africa a combattere la fame e le malattie endemiche (con le iniziative di Bill Clinton, George Bush e di fondazioni private come quella di Bill e Melinda Gates) l’America ha, infatti, rapporti economici modesti con l’Africa. Molto inferiori a quelli dell’Unione Europea, che si avvale dei legami storici con le ex colonie soprattutto della Francia e della Gran Bretagna, ma anche di Belgio, Italia e Germania. Ad allarmare Washington è, però, soprattutto il ruolo della Cina che negli ultimi 15 anni ha letteralmente invaso il Continente nero: è arrivata spinta dalla fame di materie prime, ma ormai sta trasformando l’Africa — con la quale Pechino ha un interscambio che si avvia a raggiungere i 200 miliardi di dollari l’anno — in una nuova piattaforma manifatturiera per le produzioni industriali meno impegnative.
L’elezione di Obama, primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti, aveva alimentato grandi speranze, ma per tutto il suo primo mandato il leader democratico ha ignorato il continente della sua famiglia paterna. Solo ora, a metà del secondo mandato, prende l’iniziativa nella speranza di cambiare le cose in una regione nella quale la presenza Usa è forte, ma è fatta soprattutto di assistenza militare e di presidi antiterrorismo, mentre gli «attaché» commerciali nelle ambasciate Usa dell’Africa subsahariana sono appena 8 contro i 150 di quelle cinesi.
Troppo tardi? E come si possono stringere legami con governi non democratici che a volte violano i diritti fondamentali dell’individuo? I pessimisti sottolineano che gli accordi che verranno siglati durante il vertice, per un valore complessivo inferiore al miliardo di dollari, sono ben poca cosa. Ma, al di là del governo Obama, che l’anno scorso ha lanciato la Power Africa Initiative con l’obiettivo di raddoppiare l’elettrificazione del continente entro il 2018, ci sono già diversi giganti industriali che stanno facendo da soli: General Electric produce materiale ferroviario in Nigeria, l’Ibm ha creato un nuovo grande «hub» informatico a Nairobi, in Kenya, Wal-Mart sta espandendo la sua rete di supermercati in Sud Africa.
Quello africano è ormai un mercato di un miliardo di consumatori che, agli attuali ritmi di crescita, nel 2020 spenderanno 1.400 miliardi di dollari: Obama non può più ignorarlo prima ancora che per i suoi legami di sangue con la regione, perché è impegnato nello sforzo di raddoppiare l’export Usa prima della fine del suo mandato. Barack spera di fare breccia tra i leader, più che per il colore della sua pelle, per il fatto che a differenza dell’Europa gli Usa non si portano dietro retaggi coloniali. E non vanno in Africa attirati dalle sue risorse minerarie, come sta facendo la Cina. «Noi — promette il presidente — promuoviamo lo sviluppo del capitale umano».
Quanto alla spinosa questione dei diritti umani, gli Usa per ora l’hanno affrontata escludendo dal summit i Paesi con i governi più «impresentabili»: lo Zimbabwe di Mugabe, il Sudan che ha un presidente incriminato dalla Corte Penale Internazionale, l’Eritrea di Isaias Afwerki che è sotto sanzioni Onu e la disastrata Repubblica Centrafricana reduce da colpi di stato e guerra civile. Comunque molti altri leader presenti a Washington hanno gli armadi pieni di scheletri, soprattutto in materia di discriminazione delle minoranze etniche e religiose e di rifiuto della parità uomo-donna.
Un quadro complicato che Obama ha affrontato promuovendo molti eventi sul rispetto dei diritti umani e della democrazia. Per evitare imbarazzi, il presidente incontrerà i leader africani «collettivamente e non singolarmente», come ci spiega il vicecapo del consiglio per la Sicurezza nazionale, Ben Rhodes: «E’ un evento troppo complesso, cinquanta leader. Obama li saluterà individualmente negli incontri conviviali, ma solo con pochi di loro avrà veri e propri colloqui».