Davide Frattini, Corriere della Sera 2/8/2014, 2 agosto 2014
«MEGLIO MORTI CHE PRIGIONIERI» IL MOTTO DI HADAR E DEI SUOI COMPAGNI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — È l’ordine che i comandanti non vorrebbero mai dare, sono le parole che i soldati bisbigliano come se avessero visto un fantasma: la «direttiva Annibale». Entrata nel manuale di guerra israeliano alla fine degli anni Ottanta, fa parte della dottrina di Tsahal, nessun generale ne parla in modo ufficiale. È la procedura da seguire quando un militare viene catturato, prevede di usare tutti i mezzi necessari perché non venga portato via, i commilitoni devono sparare sul commando in fuga, senza preoccuparsi per la vita dell’ostaggio.
Il sottotenente Hadar Goldin ha 23 anni, un gemello anche lui arruolato, due sorelle, sono parenti alla lontana di Moshe Yaalon, il ministro della Difesa. La famiglia — di origine britannica — vive a Kfar Saba, sobborghi e campagna a nord di Tel Aviv. Hadar ha celebrato la festa di fidanzamento poche settimane prima di entrare nella Striscia di Gaza a combattere.
Il padre Simha insegna Storia ebraica all’Università di Tel Aviv, ha scritto uno studio su Meir Ben Baruch, un rabbino del XIII secolo celebre anche per aver impedito alla sua comunità di pagare il riscatto dopo che era stato incarcerato. Ancora oggi quel precedente è citato nelle discussioni sulle norme ebraiche che riguardano i negoziati per la liberazione dei prigionieri. Adesso Simha dice: «Sono sicuro che l’esercito farà di tutto per riportare a casa Hadar».
Un altro padre, Haim Avraham, ricordava tre anni fa sul quotidiano Israel HaYom il rapimento del figlio Benny nel 2000 al confine con il Libano. E ammetteva di comprendere le ragioni dietro alla «dottrina Annibale»: «Se fossero venuti a dirmi che mio figlio era stato ucciso dal fuoco amico, mi avrebbe ferito, mi avrebbe fatto infuriare. Ma lo avrei accettato: lo Stato non può agire inseguendo i sentimenti di un genitore, deve tenere in considerazione la sicurezza di tutti i suoi cittadini. Il dovere di un soldato è proteggere la nazione e può succedere che cada in battaglia». I jet allora avevano bombardato 26 auto che tentavano di passare la frontiera, una avrebbe potuto essere quella in cui tenevano Benny. Il sergente era stato ucciso dai sequestratori quasi subito, ma questo l’esercito non poteva saperlo.
La società israeliana — spiegano gli analisti — riesce a sopportare di più un altro morto in battaglia che il destino incerto di un giovane nelle mani degli estremisti. La «direttiva Annibale» è stata codificata dopo uno scambio nel 1985: 1.150 detenuti palestinesi per tre militari. Accantonata dopo le proteste dei riservisti e dei famigliari, è stata rafforzata dal sequestro del caporale Gilad Shalit nel giugno del 2006.
Da allora gli ordini non sembrano lasciare spazio alle interpretazioni. Così il telegiornale del Canale 10 ha mostrato un comandante della Brigata Golani spronare (e ammonire) i suoi uomini prima di entrare a Gaza, durante l’operazione Piombo Fuso di quattro anni fa: «Nessun soldato di questo battaglione viene catturato. Piuttosto deve farsi saltare in aria con una granata assieme ai miliziani che lo hanno preso». Asa Kasher è il professore di Filosofia morale che negli anni Novanta ha redatto il codice etico di Tsahal. Spiega che il protocollo è ben delineato, ma lo Stato Maggiore deve evitare che venga applicato in modo estremo: «Le indicazioni non contengono, perché sarebbe inaccettabile, l’idea che un militare morto sia meglio di uno fatto prigioniero».
Alla fine del corso ufficiali, Hadar e il gemello Tzur hanno dato insieme un’intervista al canale ultranazionalista Arutz Sheva . I ragazzi ricordano che i due nonni, sopravvissuti all’Olocausto, combatterono nella prima guerra arabo-israeliana del 1948. Spiegano le loro motivazioni: «Crediamo che ognuno debba capire in quale modo dare se stesso alla comunità, non necessariamente indossando la divisa. Devi sempre essere pronto a portare la barella per i feriti, a condividere la fatica e l’impegno».