Riccardo Staglainò, il Venerdì 1/8/2014, 1 agosto 2014
IN TRINCEA A CASTEL VOLTURNO
Castel Volturno. Da queste parti manca tutto, tranne l’ospitalità. Così, alla fine di un’intervista tra tante, ti chiedono di restare per pranzo. Dalla strada non asfaltata, piena di buche e circondata da case cadenti da dove escono innumerevoli giovani africani, di questa villa non si intuisce niente. La vista è totalmente ostruita da una recinzione di oltre tre metri, con minacciose lance alle estremità, da caserma più che da abitazione. Un cartello avverte: «Attenti al cane. E al padrone». L’immagine di una pistola sgombra il campo da qualsiasi sospetto di ironia. Chi l’ha appeso mi lascia entrare a patto che non riprenda niente. Men che meno il giardino e la piscina. Sua suocera ha preparato una pasta con salsicce piccanti, pomodoro e funghi. Fuori sono trentacinque gradi. Intorno alla lunga tavola, sei adulti e quattro bambini mangiano girando gli spaghetti in un cucchiaio. Chi non guarda la tv fissa la telecamera a circuito chiuso che punta la strada. La donna mi racconta che la vita a Pescopagano («Pescopa-ghana» l’ha ribattezzata qualcuno) è ormai insopportabile. Che i neri rubano, spacciano, fanno quel che vogliono. E quindi non c’è da meravigliarsi se, com’è successo la settimana prima, qualche bianco esasperato spara. Dice: «Ci hanno abbandonato» e invoca le istituzioni. Il padrone di casa annuisce con la testa. Poi, mentre arriva la caponata, confessa che ha fatto tredici anni in galera perché era «dinto o’ sistema», che è il modo in cui gli addetti ai lavori chiamano la camorra. Solo estorsioni, specifica. Ora vivacchia di lavoretti («Sì e no 500 euro al mese»), quando capita dà una mano ai vigilantes privati che qui gestiscono l’ordine pubblico. E la villa? «È di uno zio di mia moglie, che ce l’ha lasciata». L’ospitalità di queste parti, dove c’è chi butterebbe a mare i neri e scommette su una guerra civile a sfondo razziale, è leggendaria.
C’è un motivo di cronaca per questo allarme. La sera del 13 luglio, mentre quasi tutti guardano la finale dei mondiali, il trentenne ivoriano Youssuf Baba attraversa il centro di questa frazione derelitta tra Mondragone e Castel Volturno con una bombola del gas sulla bicicletta. Pasquale Cipriani, titolare della Custodia, un servizio di guardiana che vigila per conto dei proprietari su alcune centinaia di villette lasciate vuote o in affitto, è di pattuglia col fratello Cesare. Fermano il ragazzo, gli chiedono dove ha preso la bombola. «Non sono affari vostri». Parte uno schiaffo. Il nero si difende e inizia una colluttazione. Qui le versioni si biforcano. Per i Cipriani arriva una dozzina di africani, circondano la loro macchina, li minacciano. Per Nicolas Gyan, un muratore che passa di lì, ci sono due bianchi che picchiano un fratello con dei bastoni e lui interviene per dividerli. C’è un’indagine sulla dinamica. L’esito, invece, è più chiaro. Cesare, il ventenne figlio di Pasquale e omonimo dello zio, viene avvisato e si precipita con una pistola non registrata, senza porto d’armi, con cui gambizza Youssuf e Nicolas. Decine di africani prendono d’assedio la vicina sede della Custodia. Tirano sassi, danno fuoco alle auto parcheggiate. Le fiamme si alzano verso il primo e il secondo piano dove vivono i familiari dei Cipriani, che rimangono intrappolati per quasi un’ora. L’indomani la via Domiziana viene bloccata: da una parte gli italiani, dall’altra i neri, nel mezzo la polizia, il sindaco e i rappresentanti delle associazioni di immigrati. Il peggio è scongiurato però a tutti torna in mente il settembre 2008, quando i sicari del boss Giuseppe Setola massacrarono sei ghanesi innocenti. E quando la comunità africana, sentendosi abbandonata, scese in strada, rovesciò cassonetti e divelse cartelli in una guerriglia estemporanea che si guadagnò la difesa di Roberto Saviano. «Quel trauma è sempre vivo» dice Jean-René Bilongo, un camerunense che ha vissuto a lungo qui e che oggi è un dirigente della Cgil, «e il sangue lo rinfresca. Vaglielo a spiegare alle vittime che volevano solo sparare alle gambe. Se rispondono con violenza chi si sente di biasimarli?».
Loredana Papa, per esempio, li biasima. Quarantaquattr’anni, al quarto mese di gravidanza, è la compagna di Cesare Cipriani, lo zio, che ha ancora un occhio nero e contusioni sulle braccia. «Quel Baba lo conoscevamo bene» dice lei, «avrà cento denunce per furti. L’avevamo avvisato una volta, due, tre. E lui continuava». Come sapevano che la bombola fosse rubata? «E dove l’aveva presa? Era rubata, e basta». I Cipriani, tra le altre attività, avevano anche quella di rivendita di bombole. Baba dice che gliel’aveva prestata un amico per cucinare. Ma se anche l’avesse rubata, era un buon motivo per sparare? «Mio nipote ha visto lo zio insaguinato e ha agito d’impeto. Ma questi hanno una forza incredibile, so’ animali. Noi abbiamo paura». Gli africani dicono invece che sono loro a fare paura, quando vanno a riscuotere affitti da cento euro a persona in alloggi che ne ospitano a decine per conto dei proprietari che hanno rinunciato alla villeggiatura in quelle che, una vita fa, erano le loro seconde case. Citano un altro fratello Cipriani, associato alla camorra, cognato della vicesindaco Pd di Mondragone. Tra buoni e malamente qui sembrano esserci, al più, due gradi di separazione.
Quella di Castel Volturno è la cronaca di una morte annunciata. Negli anni 70 era la spiaggia più vicina per la classe media napoletana. Poi, col terremoto dell’80 e i vari bradisismi, si decise di trasformarla in ricovero per sfollati. Dovevano stare qualche mese, sono rimasti dieci anni. Quando se ne sono andati le villette erano diventate stamberghe. Aggiungete l’osceno abusivismo del Villaggio Coppola, palazzi di un cemento così friabile che sembrano bombardati, e l’assurdità di un comune spalmato lungo trenta chilometri di Domiziana, come una main street in qualche deserto del New Mexico, solo con più kebab e prostitute. Con l’hotel Boomerang, o quel che resta del quattro stelle che era, abbandonato e riconvertito in una crack house dove da mattina a sera offrivano bunka, tirate collettive da un euro in su. «Questa sarà la terza-quarta piazza per la droga in Italia» spiega Vincenzo Ammaliato, giornalista e autore di Ritratti abusivi, un documentario sullo sconcertante degrado di quest’area, «e i fatti recenti hanno disseppellito una rabbia ancestrale. Potenziata, tra i pochi facinorosi, da un mix di crack e Tavernello». Aggiungete una demografia esplosiva, con 25 mila italiani (un quinto iscritti al collocamento) e 10-12 mila africani, di cui quasi 4000 con permesso di soggiorno (ma a Pescopagano sono quasi tutti clandestini). E si capisce che la sindrome da accerchiamento non è del tutto fuori luogo.
Chiedo a Daniele Patriarca, assistente di volo Alitalia in pensione, superstite bianco nell’énclave nera di Parco Lagani, ex quartiere residenziale del Villaggio Coppola che ora sembra una misera copia della segregazione urbana del film La zona. Avrebbe venduto la sua villetta a schiera, ma gli immigrati hanno depresso il mercato al punto che prenderebbe solo poche decine di migliaia di euro. Così resiste, protetto dalle inferriate: «Mi fa arrabbiare la disparità di trattamento: loro vanno in giro in auto non assicurate, motorini senza targa, non fanno il biglietto del bus. Io, se ho un fanalino rotto, prendo la multa». Figlio di un eroe di guerra nato in America, vorrebbe che si facesse come laggiù: «Prendere le impronte digitali, così non la farebbero franca neppure senza documenti». Ma alla fine critica anche i connazionali, come quel vicino con quasi trecento appartamenti che affitta in nero a legioni di africani: «Passa dalle cantine e riscuote da due prostitute, al pianterreno da quattro braccianti, e così via. È lo stesso che, quando volevo candidarmi a consigliere comunale, mi sconsigliò: “Tieni famiglia, ma chi te lo fa fare?”». Civismo immobiliarista.
Una che non si è fatta dissuadere è Rosalba Scafuro, vicesindaco di una giunta con poco più di un mese di vita. Insegnante di italiano alle medie, era già stata assessore all’immigrazione sotto Francesco Nuzzo, magistrato con credenziali anti-mafia che poi si erano rivelate così farlocche da portare al commissariamento. «Se è per quello» ricorda questa donna appassionata «sempre nel 2008 si scoprì che un maresciallo dei carabinieri andava regolarmente a pranzo con i camorristi. E ci fu anche un vigile urbano che dava dei passaggi ai fuggiaschi». Ne parla come di un’epoca remota, ma era solo ieri. L’inestricabile groviglio tra buoni e malamente. Oggi l’urgenza è il dissesto finanziario: «Con una popolazione reale molto superiore a quella ufficiale, e un tasso di evasione alto anche tra gli indigeni, mancano all’appello 6 milioni di euro per la raccolta rifiuti. Per non dire degli 800 mila euro che spendiamo per i servizi sociali, comunque insufficienti». Qui sono ai minimi termini. Con 14 vigili urbani, spalmati su due turni, per sovrintendere a una polveriera. Il sindaco democratico, l’ex commercialista Dimitri Russo, lo sa. È reduce da un incontro al ministero dell’Interno di cui dà conto in un’assemblea pubblica con le associazioni di volontariato: «Avevo chiesto ad Alfano più forze dell’ordine in organico, un presidio di almeno 12 mesi e di poter concedere dei permessi di soggiorno straordinari. Hanno detto no a tutto».
Non si sono mai viste così tante camionette di carabinieri e polizia. Le strade di Pescopagano si sono surrealmente svuotate degli immigrati senza documenti. Ma tra due settimane tutto tornerà come prima, forse peggio di prima. Il sindaco annuncia un’ordinanza per controlli a tappeto sulle case, per capire di chi sono, a chi vengono affittate. Per le associazioni è una misura razzista. Ma il primo cittadino zittisce tutti con un’altra dichiarazione: «Il limite della convivenza è stato superato perché non c’è più la camorra. Vogliamo dire che si stava meglio quando c’era Setola?». È una provocazione, ovvio, ma non suona bene comunque. Nel 2008 il governo mandò l’esercito, l’Interpol e fece molti arresti: lo battezzarono «modello Caserta». I clan ne uscirono molto indeboliti e quei vuoti di potere non sono stati ancora riempiti. Piccoli padri padroni locali, come il pur incensurato Pasquale Cipriani, crescono. E in assenza di uniformi e di veri boss, provano a controllare il territorio. Più di uno speculatore senza scrupoli ha comprato, a diecimila euro l’una, un centinaio di villette e le ha affidate ai guardiani che funzionano anche da gabellieri con uso di bastone, al bisogno. Al bar Torino, dove il giovane sparatore giocava a carte prima di farsi giustizia, Marco Sarra, ex missino e ora segretario regionale della Dc, rivendica i vigilantes e dice che «gli immigrati devono assoggettarsi ai nostri usi e costumi». E come se dal manuale di politica su cui si è formato avessero strappato la pagina del monopolio della forza da parte dello Stato. È il concetto più ostico per la maggior parte degli intervistati.
E quindi, come se ne esce? La vicesindaco Scafuro parla di un rilancio economico che prevede un porto turistico (due anni fa la stessa famiglia Coppola autrice dell’ecomostro ha vinto un bando per risistemarlo), un piano regolatore e un ripensamento dei Regi Lagni, canali di scarico dove confluiscono i rifiuti di oltre cento comuni. Il filtro verso il mare funziona così male che una volta ci passò una mucca intera, come nel Gange. Sì, ma l’emergenza immigrati? Prima le scappa un forse sono «troppi», che poi corregge in «presenza massiccia». «C’amm ‘a fa’?», che dobbiamo fare, più che risposte qui hanno domande da girare a Napoli, intesa come regio ne, o Roma intesa come governo. L’unico che sembra avere idee pratiche e a basso costo è il cronista Ammaliato: «Intanto dovremmo concedere permessi di soggiorno a tutti coloro che vivono qui da oltre un anno: con quello in mano, in tanti si trasferirebbero altrove. Poi controlli sulle case, spezzando il racket dei padroni italiani. Avremmo bisogno di unità cinofile. E di rimpatri volontari, magari con un assegno di 500 euro a testa: è un incentivo più che sufficiente perché non ritornino più». Isolati motivi di speranza se ne trovano. Come Naji Jehu, un nigeriano con tre lauree e un dottorato in diritto comparato ottenuto a Napoli, che con un mutuo si è comprato una casetta: «Per integrarsi serve, prima di tutto, l’istruzione». Oppure il pulman medico di Emergency, che cura gratis chiunque abbia bisogno. O il caseificio sociale di Libera che ha assunto una ghanese per produrre la sua «mozzarella della legalità». Il difetto strutturale è essere un luogo, come diceva il Leoluca Orlando della primavera di Palermo, che ha perso la «verginità dello scandalo». Un far west domizio senza più illusioni che riesce a dissentire a voce bassa rispetto alla legge del taglione. Solo l’ingenuo cronista riesce a sconvolgere un locale, chiedendogli di parcheggiare in frigo una mozzarella. Se gli avessi confessato di aver sparato a qualcuno sarebbe rimasto meno costernato.
Riccardo Staglainò, il Venerdì 1/8/2014