Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 01 Venerdì calendario

GUERRA, EROS AMBIGUITÀ. COSÌ

Ho MESSO LA VERA VITA NEL FANTASY – [Intervista a George R.R. Martin] –
George R.R. Martin, lei ha sangue italiano nelle vene o sbaglio?
«Sì un pochino, da parte di mio padre. Lui era al 50 per cento italiano, ma non mi ha mai parlato delle sue origini. Non so neanche da quale parte dell’Italia venisse. Forse Toscana. Mi piace molto l’Italia, ma non la conosco bene, sono stato a Lucca e Firenze, mai a Roma. Mentre di mia madre, che era irlandese, sapevo tutto, il passato di mio padre è sempre stato avvolto dal mistero. Vivevo in New Jersey e i miei genitori erano caduti in disgrazia durante la grande depressione. La famiglia di mia madre possedeva una casa bellissima e un molo a cui attraccavano le navi che erano diventati di proprietà della città. Quando ci passavo davanti per andare a scuola pensavo: “Questa era tutta roba mia che mi è stata sottratta”. Mi sentivo come un re a cui avessero portato via il trono e così immaginavo storie di vendetta e riscatto. “Dov’è il drago che mi aiuterà a riprendermi la mia casa e il mio molo?”. Ero un nerd – ma all’epoca quel nomignolo ancora non lo si usava – che sognava a occhi aperti guardando le navi che salpavano dal porto in direzione di terre lontane. Certo avevo anche qualche amico che divideva con me certe passioni, ma fondamentalmente ero un ragazzo solo. Il college mi ha aiutato a superare la mia timidezza, così come il lavoro di giornalista. Quando venivo mandato a intervistare le persone dovevo per forza interagire con qualcuno. È stata un’importante palestra di vita che mi ha portato a frequentare posti per me poco famigliari come gli spogliatoi delle palestre o le piazze gremite di giovani che manifestavano contro la guerra del Vietnam».
Qual è la sua posizione sulla guerra, visto che è il motore primo delle sue famose Cronache del ghiaccio e del fuoco (da cui è tratto Il trono di spade televisivo)?
«Non sono un pacifista, ma considero alcune guerre, come quella del Vietnam, immorali. Non credo in quelli che si dichiarano totalmente contrari all’uso della forza. Non ho mai ucciso nessuno nella mia vita, ma non escludo che in determinate circostanze potrei farlo. Se mi chiede: “Uccideresti Adolf Hitler se stuprasse tua nonna?”, la mia risposta sarebbe: “Certo che lo ucciderei!”, ma probabilmente lo farei anche solo per il piacere di uccidere Hitler. Nella letteratura è facile, con il senno di poi, individuare il grande lupo cattivo, il principe delle tenebre da combattere, ma nella vita reale le cose funzionano diversamente. Quello che mi prefiggo di fare come scrittore è raccontare l’ambiguità della guerra perché sono convinto che, in fondo, all’uomo piaccia. Quando si tratta di scegliere tra una vita lunga e noiosa e una corta ma gloriosa, spesso l’essere umano sceglie la seconda. È una questione di ego, che la tradizione storica ha sempre celebrato con onore, mostrando armature luccicanti, squadroni di soldati allineati in fila e bandiere colorate che sventolano al vento. È epico, non lo metto in dubbio, ma quando il combattimento si è consumato, quello che resta sono solo frattaglie e pozzanghere di sangue. Se sei uno scrittore onesto dovresti mostrare anche questo».
Quello che colpisce nei suoi libri è la caratterizzazione dei personaggi e la loro spiazzante ambiguità…
«Per me la cosa più importante sono i personaggi. Quando inizio a scrivere un libro, parto prima dalla loro descrizione. Non ha importanza se stai scrivendo un racconto fantasy o di fantascienza, se lo stai ambientando su un pianeta deserto o al centro della Terra devastato dai draghi, i personaggi devono essere riconosciuti come esseri umani. Quando leggo i giornali, o guardo un programma alla televisione o parlo ai miei amici o penso a me stesso, mi rendo conto che non siamo fatti in bianco e nero, ma piuttosto un serie infinita di sfumature di grigio. Nella stessa persona c’è la capacità di fare del bene ma anche tanto male. La storia della nostra vita è il risultato delle scelte che facciamo. Mi faccio un sacco di domande prima di cominciare a raccontare un personaggio. Anche quando è una figura di secondo piano o uno dei cattivi, anzi, soprattutto quando è un cattivo, perché cerco di pensare alle motivazioni che guidano le sue azioni. Spesso nella vita reale, come nella fiction, una persona non pensa a se stesso come il malvagio. Non è che uno si alza la mattina dicendo: “Quale cattiverie posso compiere oggi?”. Lo stesso vale per gli eroi. Una persona normale non può essere un eroe a tempo pieno. I poliziotti e i pompieri, ad esempio, sono eroi professionali che salvano la vita alle persone e compiono grandi gesti, ma anche loro non lo fanno tutti i giorni. Credo che chiunque possa comportarsi da eroe il martedì e da stronzo la domenica. Molta letteratura, specialmente fantasy, ha rappresentato delle figure di eroi senza macchia e senza paura che a me non sembrano credibili. Nella mia vita ho fatto cose di cui non vado orgoglioso, ma che fanno comunque parte del mio modo di essere. Ammettere questa verità mi ha reso libero».
Questo la porta a simpatizzare spesso per i malvagi, mentre per quanto riguarda gli eroi mi sembra di cogliere una compiaciuta soddisfazione nel farli morire nel più cruento dei modi…
«Non è che mi diverto a farli morire, penso che sia una soluzione efficace. Se in un romanzo un personaggio muore e al lettore non importa nulla, significa che lo scrittore ha fallito, che non ha saputo appassionare a livello emotivo. Vogliamo piangere, ridere, provare forti emozioni, innamorarci anche per un personaggio. Così quando muore, provi dolore proprio come lo proveresti per una persona reale. Le reazioni violentemente emotive di molti lettori alla scena del massacro nuziale nel terzo volume di Cronache del ghiaccio e del fuoco, l’ho preso come un successo personale, ma lo stesso tipo di empatia ho cercato di suscitarla anche nella morte Re Joffrey, uno dei personaggi più odiati della saga. Se si legge quella scena nel libro, dove il personaggio ha solo 13 anni ed è quindi molto più giovane che nella serie tv, nonostante lo si abbia odiato fin dalla prima pagina, non si può non provare pena per lui. Perché nel momento della morte ci appare per quello che è: un tredicenne disperato che, con il terrore negli occhi, invoca invano l’aiuto di sua madre e suo zio Tyrion. Credo che lo spettatore possa sentire questa pietà, anche solo per un momento, e non credo che salti sulla sedia gridando: “Yeah! Il bastardo è morto!”».
Che cosa è cambiato nel modo di fare televisione oggi rispetto a quando ha cominciato a scriverci nel 1986?
«Da quando ho iniziato a lavorare per la televisione le cose sono molto cambiate, merito della Hbo che è un canale a pagamento. Negli anni 80 avevamo solo quattro canali che raggiungevano gratuitamente le case di tutti gli americani, quindi i produttori cercavano di confezionare delle serie tv che avessero un respiro generalista. Ci dicevano di togliere qualsiasi riferimento sessuale e ogni forma di violenza. Volevano soltanto che ci fosse molta azione. Ma che cos’è l’azione? Violenza senza sangue. Siamo abituati a vedere delle corse pazzesche in macchina, ma non vediamo mai i corpi sanguinanti tra le macerie. Con l’avvento dei canali a pagamento è stato possibile fare cose più specifiche, per un pubblico adulto. Non devi accontentare tutti quanti. Puoi fare cose che possono scioccare e disturbare determinate persone e che altre invece sono disposte a pagare per vedere. Hbo è stata forse la prima a rompere certi tabù, con I Soprano, Deadwood, e soprattutto Roma».
Come spiega che negli anni 60 e 70 la censura e la critica organizzavano crociate contro i film espliciti e oggi, invece, sangue e sesso non sollevino più polemiche?
«Io sono contro qualsiasi tipo di censura. Mi piace considerarmi un libero parlatore. Credo che se qualcosa non ti piace devi solo evitare di comprarla. La televisione è piena di canali di cui a me non frega niente. Tutti quei canali che ti vendono cose, ad esempio. Non ho mai comprato nulla in tv e non ho intenzione di farlo mai. Ci sono tanti canali che fanno dottrina cristiana che a me non interessano e non vederli è una mia scelta, ma non per questo vado in giro a gridare: “Oh, questi cristiani sono una vergogna, toglieteli dalla messa in onda, il governo dovrebbe fare qualcosa!”. No, lasciateli pure lì, se qualcuno è interessato avrà il suo canale da guardare, così chi ama la pornografia avrà il suo. John Milton diceva: “Lasciamo pure che Lei (la Verità) e la Falsità lottino corpo a corpo! Quando mai s’è sentito che la Verità abbia avuto la peggio in una aperta e libera tenzone?”».
Ma secondo lei è più provocatorio il sesso o la violenza?
«In America fino a qualche tempo fa era ancora proibito mostrare il seno nudo di una donna in televisione. Per me la cosa è incredibile perché abbiamo avuto secoli e secoli di storia in cui il seno non era considerato tabù. Basta andare in Italia e vedere quante statue e quadri dell’antichità rappresentino donne senza veli. Michelangelo e i suoi allievi hanno riempito le strade di Roma e le chiese con immagini di seni e culi ovunque. Persino gli angeli erano nudi e nessuno si è mai scandalizzato. Da noi è bastato che a Janet Jackson cascasse una spallina del reggiseno durante il Super Bowl perché si creasse un affare di Stato».
Le cronache del ghiaccio e del fuoco vengono catalogati come fantasy, ma al loro interno c’è una contaminazione di generi: dramma-storico, erotico, orrore. È la ricetta che piace ai suoi lettori?
«Fin da quando ero bambino ho amato la fantascienza, l’orrore e il fantasy. Sono cresciuto con questa roba. Adoravo leggere fumetti di super-eroi, specialmente quelli della Marvel, e quando sono cresciuto ho deciso di dedicargli un affettuoso omaggio con la serie di romanzi Wild Card, dove c’è un personaggio, una grande e potente Tartaruga, che è del tutto e in tutto simile a me, solo che io non ho super-poteri. Detto questo però, ho sempre trovato fastidioso che in un racconto bisognasse tenersi legati ai meccanismi di genere. Per questo mi sono divertito a costruire antologie nelle quali ho invitato alcuni amici scrittori a cimentarsi con generi diversi in un unico libro. Quando ho iniziato nei lontani anni 70 era possibile scrivere un romanzo di fantascienza prima e uno dell’orrore dopo. Oggi gli editori ti dicono che se sei uno scrittore fantasy e vuoi passare all’horror devi prima trovarti uno pseudonimo altrimenti rischi di confondere il pubblico. A me è sempre sembrata una grossa cazzata: il pubblico è molto più intelligente e attento della maggior parte degli editori che conosco. Da bambino leggevo qualsiasi cosa, da H.P. Lovecraft a Tolkien senza mai chiedermi a che genere appartenessero».
Diceva di essere cresciuto leggendo fumetti di super-eroi…
«Non solo, ma interagivo pure. Ho scritto tantissime lettere alla Marvel per esprimere le mie impressioni sulle storie e la prima è stata pubblicata sul numero 20 dei Fantastici 4. Praticamente diceva che Shakespeare ha lasciato il posto a Stan Lee. Ancora oggi penso che Stan Lee sia stato il più grande scrittore di fumetti che il mondo abbia avuto. Molto meglio dei film hollywwodiani dove c’è una corsa: ognuno deve essere più grande del precedente. Voglio dire, non è necessario distruggere New York City in ogni maledetto film. Ho amato tanto i fumetti dell’L’uomo ragno, perché Peter Parker era anche e soprattutto un eroe fragile. Leggendo i fumetti della Marvel avevi la sensazione che qualsiasi cosa potesse accadere. I personaggi potevano morire o cambiare identità, altri ancora abbandonare la lotta. Come nei miei libri».
Come mai quasi tutte le storie d’amore raccontate nei suoi libri sono destinate all’insuccesso se non addirittura ad affogare nel sangue?
«Perché l’amore è spesso destinato all’insuccesso anche nella vita reale. Quando ero giovane credevo nel vero amore, nell’unica ragazza che potesse stare con me per tutta la vita, ma ho imparato presto che gli esseri umani sono troppo complicati per stare assieme. Quando c’è di mezzo il sesso poi le cose si complicano ancora di più. Da ragazzo trovavo molto interessante esplorare sentimenti romantici all’interno dei miei libri. Ero un grande lettore de Il grande Gatsby di Fitzgerald, che penso essere uno dei libri più romantici mai scritti. Oggi l’amore romantico non è più una mia priorità e in Le cronache del ghiaccio e del fuoco preferisco perdermi dietro altre peculiarità dell’animo umano. Mi piace esplorare ancora i rapporti uomo e donna, e mettere in scena le loro differenze, ma credo che queste differenze siano molto meno delle similitudini. Nel senso che al di là del fisico, non penso ci sia una grande diversità tra uomo e donna. Siamo tutti esseri umani con i nostri desideri e le nostre contraddizioni. Nei miei libri ci sono spesso personaggi femminili dal carattere molto forte, che ragionano come uomini e agiscono come uomini. Non credo di essere un regista femminista, come alcuni critici hanno detto. Semplicemente non scrivo di uomini o donne, ma di individui».
Manlio Gomarasca, il Venerdì 1/8/2014