Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 3/8/2014, 3 agosto 2014
LA PROFANAZIONE NEL THERMOS
«La prima tazza mi umetta le labbra e la gola. La seconda bandisce la solitudine. La terza dissipa la pesantezza della mente, confusa da tante letture. La quarta fa esalare una lieve traspirazione, disperdendo dai pori tutte le sofferenze della vita. La quinta mi purifica, la sesta mi apre il regno degli immortali. La settima, ah perché non ne posso bere di più!», sospirava il poeta Lu Tung, detto il "pazzo del tè". Grazie al sinologo Marco Ceresa abbiamo il più antico e autorevole trattato su questo fluido tema, composto dal poeta Lu Yu, il "dio del tè" sotto la dinastia Tang.
Nel 1660 il diarista Samuel Pepys ordinò per la prima volta una tazza di quella «bevanda cinese di cui mi sono presto ubriacato». Secondo Dumas le prime tazze da tè erano state create a Kronstadt, per reagire all’avarizia di chi metteva troppo poco tè nella teiera. Quando la debolezza dell’infuso lasciava trasparire sul fondo della tazza il panorama della cittadella, il cliente poteva protestare esibendo il fondo della tazza: «Si vede Kronstadt!».
Anche da noi la preparazione del tè mantiene il suo alone rituale, e il suo risultato, un nulla che profuma di qualcosa, non può non assumere un significato mistico. L’eco alchemico di questo passaggio dall’acqua al tè implica un discorso sotterraneo sul nulla della vita e sulla possibilità concessa agli uomini di dargli un profumo e cioè un senso grazie a un intreccio di riti. E come tutti i riti anche quello del tè è in grado di arrestare per un po’ il movimento incessante dell’esistenza.
Nel 1915 il giovane Churchill era riuscito a distrarsi dagli orrori della trincea andando a prendere un tè con un amico. I dieci chilometri a cavallo necessari per assaporare la familiare bevanda non lo avevano minimamente turbato. Chi prende il tè domina le circostanze. Durante la sua permanenza in carcere, Mérimée offriva tranquillamente il tè a chi gli faceva visita.
Il rituale del tè può essere interpretato in tanti modi diversi anche se chiunque ne adotti uno è, come nella religione, convinto della sua assoluta giustezza. Premuroso con le signore del vicinato come con le dame del gran mondo, Henry James esigeva che la zolletta di zucchero destinata alla sua tazza di tè venisse preventivamente spezzata in due. Più goloso, E.M. Forster coronava la teiera di sandwich al cetriolo, crumpets, marmellata di fragole, muffin e panna montata.
Per Gogol il tè era solo un preliminare all’ascesi. Per lui il momento migliore per meditare «è subito dopo il tè perché l’appetito non vi distragga». Ma per Proust, infreddolito da un’uscita sotto la neve, il tè era stata la strada imprevista per sciogliere le catene della memoria. «La vecchia cuoca mi propose una tazza di tè, che non prendo mai». Poco dopo l’incontro del calore aromatico della bevanda con quello del pane tostato gli aveva schiuso il cammino della Ricerca del tempo perduto.
Non tutti gli anglomani sono fedeli al tè. Barbey d’Aurevilly ingiungeva a un amico: «Diffida del tè, non abusarne… è dal tè che viene l’insonnia. .. Si muore prendendo troppo tè». Timori condivisi da Balzac che lo considerava una delle droghe moderne, responsabile del pallore malsano e della tediosa verbosità delle inglesi. Pur condividendo almeno parzialmente il loro parere, Senancour non poteva fare a meno di riconoscere che il tè «è molto utile per annoiarsi in modo calmo. Tra i veleni un po’ lenti che deliziano l’uomo, credo che sia uno di quelli più adatti alle sue angosce».
Il ruolo sacerdotale di chi prepara il tè può indurre chi lo riveste a piccoli abusi di potere. Edith Wharton stendeva degli inesplicabili, agghiaccianti silenzi e a volte trascurava l’ospite per giocare con il suo pechinese che beveva il tè dalla tazza della padrona.
Molto diverso è il tè dei solitari. Verso mezzanotte, Dostoevskij iniziava a lavorare sorseggiando tè freddo non troppo forte. Ma quando la fede nel tè crolla, anche l’evanescente liquido sembra vano. Passato all’alcol, lo scrittore gridò a chi gliene offriva una tazza: «Andate al diavolo con la vostra brodaglia!».
Inutile ribadire l’importanza degli strumenti del rito. Un grande naturalista come il conte de Buffon si premurava di lasciare il suo servizio da tè in eredità alla «sublime amica», madame Necker, moglie del celebre ministro. Due note autrici inglesi, le sorelle Antonia S. Byatt e Margaret Drabble, evitano di incontrarsi per vecchie ruggini rianimate da un evento imperdonabile. Margaret ha parlato in un libro del servizio da tè di famiglia di cui Antonia avrebbe voluto avere almeno l’esclusiva letteraria. Le infinite sfumature dei vari brand offrono una serie imprevista di sorprese. All’eroe della bibbia del decadentismo, Controcorrente di Huysmans, bastava annusare il tè per elencare i componenti della miscela.
Ma la condanna del tè sconsacrato bevuto nei bicchieri di carta o attinto da squallidi thermos è senza appello. Paul Morand commentava disgustato l’intruglio che veniva servito negli uffici della City e nei foyer dei teatri londinesi, «nero, inondato di latte, batte il record dell’imbevibilità, facendo morire di vergogna i cinesi che ne bevono da quattordici secoli e esportano solo i meno buoni tra le loro ottanta tipi».
Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 3/8/2014