Antonella Palmieri, La Stampa 2/8/2014, 2 agosto 2014
NAIROBI BLINDA L’AFRICA PER CONTENERE L’EBOLA
Le persone in attesa dell’aereo da Abidjan, capitale della Costa d’Avorio, sbuffano innervosite quando sullo schermo degli arrivi all’aeroporto Kenyatta di Nairobi appare un ritardo di due ore. «Abbiamo un matrimonio e due giorni fa sono venuto a prendere mio cugino - racconta Marti, 36 anni - e anche allora la stessa storia con i ritardi. Tutto per i controlli sull’Ebola». Il virus Ebola, letale al 90%, da mesi sta terrorizzando l’Africa Occidentale dopo aver provocato in Guinea, Liberia e Sierra Leone oltre 700 morti e contagiato più di 1.300 persone non risparmiando vittime neanche fra i medici.
Due volontari americani infettati in Liberia saranno evacuati e ricoverati in un ospedale di Atlanta, mentre da giorni ad Amburgo si discute sulla richiesta avanzata dall’Organizzazione mondiale della Sanità di ricoverare in questa città due medici, esperti della malattia. La paura ha sfiorato anche la Gran Bretagna quando Moses Sesay, ciclista 32enne della Sierra Leone, è stato tenuto in isolamento come caso sospetto e sottoposto a test che alla fine si sono rivelati negativi.
«Il virus Ebola è qualcosa da prendere molto seriamente», ha detto ieri il presidente Usa, Barack Obama e Margaret Chan, direttore generale dell’Oms ieri al termine della riunione internazionale avvenuta in Guinea ha messo in guardia: «Il virus potrebbe avere conseguenze disastrose, è senza precedenti e si sta muovendo più velocemente di quanto facciano i nostri sforzi per prevenirlo».
Una prevenzione che passa anche dal monitoraggio dei passeggeri negli aeroporti. Nairobi è uno degli hub più importanti del continente. Ogni giorno arrivano decine di voli dall’Africa Occidentale che potrebbero avere a bordo persone infette.
Quando arriva l’aereo da Abidjan scendono dalla navetta donne dalle lunghe e colorate gonne con bambini in braccio, uomini in giacca e cravatta, qualche orientale. Questi ultimi sono gli unici a indossare le mascherine sul volto. Tutti avanzano sicuri verso il controllo passaporti ma vengono fermati. Devono compilare un modulo in cui dichiarano il loro stato di salute, quali sono i Paesi in cui sono stati nell’ultimo mese e mentre lo fanno gli infermieri li osservano. Al momento non c’è ancora la misurazione obbligatoria della temperatura, come è stato deciso in Cina dalle autorità aeroportuali del Canton, regione dove si concentrano la maggior parte degli immigrati africani, ma è tutto affidato al buon occhio di hostess, steward e infermieri.
«Il nostro aeroporto è più che sicuro - spiega Stephen Karau, medico dell’Autorità dell’Aviazione civile del Kenya -. Abbiamo messo in guardia il personale delle compagnie aeree di non far salire nessuno che mostri sintomi influenzali o una sofferenza qualsiasi». Una procedura che viene seguita in tutti gli aeroporti perché anche se un aereo arriva dal Ghana, dall’Uganda o dal Sudafrica, spiegano le autorità, non c’è la certezza che quel passeggero non sia stato in una zona infetta nei giorni precedenti alla partenza.
Regole che finora hanno impedito l’arrivo nella capitale kenyana di casi sospetti, anche se l’aerea per la quarantena è già pronta. È uno stanzino spoglio ricavato nell’ufficio del responsabile sanitario agli arrivi. Sul pavimento scatoloni pieni di tute bianche anti-contaminazione, maschere in plastica per gli occhi e in tessuto per la bocca, vari tipi di guanti. «Il ministero ce le ha mandate, ma ancora non le abbiamo usate, per fortuna», dice un dipendente. Se dovesse arrivare un caso sospetto verrebbe rinchiuso in questa stanza, visitato da medici e portato poi in ambulatorio.
Dopo l’attesa Marti incontra sua cugina all’uscita dall’aeroporto. «I controlli dei documenti andavano a rilento - racconta la giovane - ti scrutano ti fanno mille domande. “Come ti senti? Dove sei stato?”. Ma davvero non so se serva. Il virus può essere invisibile per giorni e le domande in questo caso servono a poco».